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Anno edizione: 2017
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Se questo è il capolavoro di Gombrowitz, mi asterrò scrupolosamente dal leggere il resto delle sue opere
Romanzo concettualmente ostico, spesso un pò fastidioso in molti dialoghi un pò troppo sopra le righe, grotteschi certo, marcati da toni umoristici e sarcastici, esagerati nella forma, volutamente eccessiva. La sostanza però è di inestimabile valore intellettuale, la noia esistenziale, l'erotismo malato e ossessivo, il cercare il senso di una realtà materiale insensata, attraverso la surreale e spesso patetica ricerca di sfumature e dettagli forse solo in apparenza insignificanti, creano un certo senso di smarrimento, e anche il finale aperto contribuisce ad amplificare il mistero. L'estrema bizzarria di tutti i personaggi, caricature di aspetti psicologici che inquietano e danno parecchio da pensare, rimandano certamente alle opere di Thomas Bernhard, amare come il fiele, nessuna fiducia riposta negli esseri umani, nel mondo, nell'universo stesso e in in chi lo ha creato. Egoismo, invidia, stupidità, cattiveria, incapacità di amare, ossessioni, violenza distruttiva e la vaciutà e morbosità delle relazioni sociali.
È tutto finito. Il romanzo, intendo, la letteratura come veniva intesa una volta, tanto tempo fa... perché poi - udite udite - è arrivato Gombrowicz. E con Gombrowicz non abbiamo semplicemente voltato pagina - troppo facile, e del resto non sarebbe qualcosa di nuovo, quante volte nella sua storia la letteratura ha voltato pagina!... Quella pagina Gombrowicz l'ha strappata. Sfido i risentiti a provare a reincollarla!... Personalmente, da quando ho scoperto Gombrowicz, non posso più farne a meno.
Recensioni
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“Cosmo” deriva dalla parola greca che significa “ordine, armonia”. Tutto il contrario della situazione in cui si trovano i due giovani protagonisti, Witold e Fuks, che si rifugiano lontano dalla città e dai rispettivi problemi (per il narratore la famiglia, per Fuks il capoufficio) affittando una camera in un luogo fin da subito denso di misteri. Ancora prima di entrare, si trovano una scena orribile davanti agli occhi: un passero impiccato a un fil di ferro agganciato a un ramo. Chi potrebbe macchiarsi di un delitto così insensato? A quale scopo? Colpiti da tanta crudeltà, i due stravaganti affittuari cominciano a guardarsi intorno, alla ricerca di indizi o di possibili collegamenti. La pensioncina è modesta, la famiglia che vi abita sembra tranquilla, ma nei gesti quotidiani tradisce una certa impazienza. La fissazione dei due giovani li rende attenti al minimo segno, alle linee immaginarie che uniscono certi punti, a oggetti inutili buttati a caso ma che improvvisamente acquistano un nuovo significato, per chi sa osservare e per chi sa associare. Quando compare un elemento incompatibile con le loro teorie del tutto arbitrarie, ecco che, più che il cosmo, si affaccia con prepotenza sempre maggiore il caos.
A questo si aggiunge un altro aspetto. Nel sistema chiuso della pensione, il contrasto fra Katasia, quarantenne con le labbra deturpate da un incidente, e la bella Lena dalla boccuccia delicata, genera un sottile gioco di rimandi che fa nascere un erotismo nascosto e morboso, senza alcuna possibilità di esprimersi alla luce del sole ma che trova una via sotterranea. E ancora non abbiamo presentato la variabile impazzita che si scatena a un certo punto. Leon, il padre di Lena, si comporta in modo sospetto e parla in un modo altrettanto sospetto, con il suo perfido tirirì fischiettato a più riprese. Quando l’allegra comitiva decide di partire per una gita in montagna, pur di allontanarsi dal clima ormai diventato soffocante della pensioncina, la follia di Leon si manifesta apertamente.
«E all’improvviso, ecco risuonare: “Berg!”. […] “Come?” “Berg!” “Cosa, berg?” “Berg!” “Ah già, aveva accennato a due ebrei… a una barzelletta sugli ebrei”. “Macché barzelletta sugli ebrei! Bergamento col berg nel berg – capisce? – Bembergamento col bemberg… Tirirì»
Parola inventata di sana pianta, buona per tutti gli usi, il berg di Leon si carica di una forza (erotica) repressa che non lascia presagire niente di buono, una porta d’accesso in più al caos che si profila all’orizzonte. L’universo di Witold resta così inafferrabile, incomprensibile e destinato all’assenza di senso.
Un libro perturbante, Cosmo, l’ultimo scritto dal grande autore polacco, nel 1965, che il Saggiatore ripropone in una nuova traduzione che restituisce brillantezza a una lingua capace di scardinare il mondo così come lo conosciamo. Come avviene in altri grandi libri del Novecento, l’improbabile indagine non conduce a niente, se non a un finale incapace di risolvere la situazione. Si torna daccapo, al punto di partenza, dove, per riprendere le parole di Michele Mari, la vita continua, regolare, spietata.
Recensione di Clara Domenino
Torna in libreria dopo anni di assenza dai cataloghi Cosmo di Witold Gombrowicz (prima uscita: 1965) per i tipi del Saggiatore, con la traduzione di Vera Verdiani, a cura e con una bellissima postfazione di Francesco Cataluccio. Assenza appena «interrotta» dalla trasposizione cinematografica nel 2015, quando un altro polacco che girava in Francia, il «maudit» Andrzej Zulawski, vinceva a Locarno il premio alla regia per il suo terminale Cosmos. Due personalità affini, scrittore e regista, che si sono confrontati con il caos e l’ordine prima di morire.
E così torniamo a leggere questa labirintica soggettiva dello sguardo, un occhio che si apre appena un attimo dopo aver ricevuto il battesimo del risveglio, un occhio che si muove come la steadycam di Shining all’inseguimento del piccolo Danny, pedinando le sue imprevedibili rotte lungo il «nostro frammentario, caotico, trascurato, abietto e vile rapporto con ciò che ci circonda».
Mimesi dell’esperienza di conoscenza, questo oscuro e bizzarro romanzo poliziesco, che Gombrowicz definiva «un romanzo sulla fabbricazione della realtà», è l’episodio tardo ed estremo di un percorso epistemologico, diciamo pure macronarrativo, iniziato negli anni Trenta – acme della nuova letteratura modernista – e di un autore che da Ferdydurke (1938) a Transatlantico (1953), dai racconti di Bacacay (1957) a Pornografia (1960) fu amato dai «novissimi» neo-avanguardisti, Sanguineti in testa.
I due giovani Witold e Fuks, sospinti dal vento della noia in un’estate polacca slavata di disperazione, biancastra, sovraesposta di luce e insensatezza, sono in viaggio, entrambi in fuga provvisoria da Varsavia, il primo dai genitori, il secondo dal terribile capufficio Drozdowski. La visione di un passero impiccato lungo la strada e poi l’incontro con due bocche speciali nella casa dove alloggeranno – una è la bocca bellissima di Lena, l’altra è quella sfigurata di Katasia – scateneranno una serie di complicazioni, «combinazioni possibili» e conseguenze che seguiranno una logica aleatoria, una «realtà che si fa scrivendo».
«Sto annotando dei fatti. Questi e non altri. Perché proprio questi? Guardo la parete. Puntini, pustole. Ne emerge qualcosa, come una figura. No, la figura svanisce, è svanita, restano il caos e quella sporca profusione». Il dissidio fra caos e cosmo, fra «lusso del disordine» e gli «indizi» di un ordine è lo specchio di un altro dissidio, quello tra «sozzura» e «angelicità». Se, per dirla con Lacan, il soggetto del desiderio si nasconde nel linguaggio, allora il «berg», la parola (forse di origine yiddish?) d’impossibile traduzione, alla maniera del dantesco «Pape satan aleppe», è l’allarme linguistico di una irriducibilità dell’«inconscio fisico». Gombrowicz prende in parola Freud quando, per spiegare la pulsione, utilizza l’immagine di una «bocca che bacia se stessa». Le due bocche, che prima si sovrappongono e poi creano una specie di essere transgenico, una mutazione orale che ossessiona il protagonista, sono proprio incarnazione della pulsione, che ha trovato la sua naturale via di comunicazione con l’esterno.
Se i due ragazzi, immaginando indizi inesistenti (una freccia disegnata sul muro indicherebbe dove indirizzare le loro indagini), inverano le stesse supposizioni, ciò accade perché dalla bocca l’immaginazione sfrenata – dominio, onnipotenza – ha collaudato il suo esperanto: da questo varco ora tutto è possibile. Come in Doppio sogno di Schnitzler, il tradimento immaginato è più di un’onda cerebrale, è emanazione fotonica, è incarnazione di atti e passioni. È l’erotismo delle cose che chiama all’azione i due onanisti (come in Ferdyduke) annoiati: il loro viaggio – e da un certo punto in poi il viaggio del solo Witold – è quello dell’investigatore nel labirinto dei possibili, nel mistero che fa esclamare: «come si fa a sapere qualcosa, non si sa mai nulla, niente è mai certo». È il richiamo della pulsione, lo spazio dell’informe, del caos, che può rompere la paralisi dell’inazione: è un esilio primigenio, l’esclusione da quella specie di big bang dei fenomeni della realtà: «Possibile che niente possa mai essere realmente espresso [...] possibile che non si riesca a riprodurre il balbettio dell’attimo nascente?».
Il romanzo, poi, deflagra con l’irruzione di Leon, con il suo linguaggio allarmato, patologico, balbuziente. «Oh oh oh oh, dov’è la fiaschina mammina, facciam la piscettina, mungere il cognac, patapum patapàm!». L’esplosione del determinismo allucinato, che presiedeva alle investigazioni dei due improbabili Holmes & Watson, avviene proprio a partire dalla comparsa in scena dell’ex-banchiere perverso: perché è Leon il vero angelo della follia. È per via della disarticolazione del linguaggio, grazie al virus della parola – ancora pillole per bocca potremmo dire – rappresentata dal «berg», che si «introducono i [...] fantasmi nel mondo reale». Con Leon Cosmo rivela la sua natura di generatore di angosce, ectoplasmi deviati che polverizzano ogni barriera fra interno ed esterno. Vale la pena, dunque, di rileggere con attenzione questo capolavoro di letteratura sì parodistica e carnascialesca, ma anche critica, clinica: letteratura di crisi, per una crisi affatto provvisoria, ma anzi, destinata a durare quanto dura l’essere umano e il suo esilio dalla perfezione del proprio piacere. La realtà è questa: distanza, apprendistato alla perdita. Come dice Heidegger: «L’angoscia rivela il Niente».
Filippo Polenchi
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