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Fuori da ogni esotismo e da quella lirica esaltazione delle sue bellezze naturali che ha contrassegnato resoconti di viaggiatori e stampe ottocentesche, questo libro restituisce un affresco della società di Cuba in quattro secoli di vita coloniale. In un’isola la cui storia è stata scandita dal “contrappunto del tabacco e dello zucchero”, la cultura della canna e l’economia della piantagione hanno costituito il luogo in cui si è forgiata l’identità socio-culturale dei cubani. Al centro dell’analisi è il marchio indelebile che la manodopera africana ha impresso ai modi di vita della “sempre fedele isola di Cuba” nell’ambito dell’impero spagnolo in America Latina. È la schiavitù, con il suo portato di latente conflittualità razziale, di discriminazione sociale e con la sua forte impronta su molti aspetti dei costumi coloniali, a costituire il vero snodo gordiano di una società multietnica e a proporsi come il tema centrale di un acceso dibattito che anima la società cubana per tutto il secolo scorso. L’identità sociale dell’isola si è però manifestata in una stretta contiguità degli spazi vitali di bianchi (sia di quelli nati in America che nella madrepatria), neri e meticci: una mescolanza razziale che si è pervasivamente imposta come un dato di assoluta originalità e che ha indotto anche i ceti dominanti a introiettare abitudini, gesti, ritmi, lessico e credenze della popolazione di colore. Una storia, quella di Cuba, esemplificata da Cecilia Valdés, la mulatta al centro di quel grande affresco alla maniera balzacchiana che costituisce una sorta di “commedia umana” di ambientazione tropicale: è infatti la tragica vicenda della protagonista, con la sua irrefrenabile ambizione a scalare i gradini della scala sociale, s proporsi come un’allegorica sintesi dei destini della Cuba coloniale.
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