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Sull'onda del successo di alcune recenti produzioni cinematografiche, la storia dell'"altra Germania" ha suscitato anche in Italia un crescente interesse, che, tuttavia, solo raramente ha trovato riscontro in lavori equilibrati e approfonditi dal punto di vista storiografico. Più spesso, la Ddr è rimasta imbrigliata nella rete delle immagini stereotipate e pregiudiziali di un tempo, continuando a rappresentare, per alcuni, il peggiore esempio di socialismo reale e, per altri, il paese nel quale, dopo la drammatica esperienza del nazismo, si era dato vita, pur tra mille contraddizioni, a un nuovo modello politico-sociale ispirato ai principi fondamentali del marxismo-leninismo.
Il generoso lavoro di Magda Martini ha l'indubbio merito di abbattere entrambe le immagini e di presentare finalmente una panoramica circostanziata della storia della Ddr mediante una duplice prospettiva analitica, quella del rapporto tra cultura e potere politico e quella della relazione con il mondo intellettuale italiano.
Traendo ispirazione dal romanzo di Friedrich C. Delius, Der Spaziergang von Rostock nach Syrakus (1995), nel quale sono narrate le vicende di un cittadino tedesco-orientale che lasciò il proprio paese per poi rientrarvi volontariamente solo dopo aver visitato la Sicilia, l'autrice ricostruisce infatti la fisionomia di una realtà sociale e culturale che, a dispetto di quanto suggerisce il cliché della Stasi-Diktatur, non fu semplicemente impenetrabile e soffocante, ma, al contrario, complessa e articolata. In effetti, per quanto avvenute all'ombra del Muro, condizionate dalle logiche bipolari del tempo, segnate dalle diffidenze reciproche, vincolate da indubbi motivi politico-propagandistici, le relazioni culturali tra Italia e Ddr poterono svilupparsi, tra alterne vicende, per circa un quarantennio, grazie soprattutto all'intensa attività svolta non solo e non tanto dalle organizzazioni ufficiali (tra cui la Deutsch-Italienische Gesellschaft e la Società di amicizia Italia-Rdt), ma soprattutto da associazioni autonome (si pensi innanzitutto al Centro Thomas Mann e al Comitato Italia-Rdt) e da singoli intellettuali, che, ostili alle misure di isolamento adottate contro il governo di Berlino Est, furono capaci di coinvolgere, all'interno di una fitta trama di interlocutori, istituzioni, case editrici e dipartimenti universitari.
Cercando di comprendere il ruolo effettivamente esercitato dal potere politico, dalla propaganda e dall'ideologia sui rapporti culturali, sullo sviluppo delle istituzioni, sull'attività degli intellettuali e infine sulla percezione reciproca dei due paesi, l'autrice ha organizzato la propria analisi in due ampie sezioni. Introdotta da due brevi capitoli tesi a illustrare sinteticamente i presupposti a partire dai quali presero forma le relazioni culturali tra Italia e Ddr, la prima è fondamentalmente dedicata alla ricostruzione di quel fitto intreccio di legami personali e non, che accompagnarono lo sviluppo e il consolidamento di significative relazioni culturali nel quadro generale di un rapporto alterno, contraddittorio, alimentato da frequenti allontanamenti e altrettanti riavvicinamenti, da ostinate ingenuità e da cocenti disillusioni.
La seconda sezione, indagando soprattutto le modalità di ricezione della cultura prodotta nei due rispettivi paesi, è invece dedicata a un'attenta analisi delle percezioni e delle immagini reciproche, che giunge a sfiorare le nuove prospettive tematiche emerse in seguito alla caduta del Muro, al dissolvimento della Ddr stessa e allo scoppio del Literaturstreit. In particolare, la descrizione dei meccanismi censori praticati nei confronti dei prodotti dell'arte italiana perfino in quei casi che l'autrice definisce di "censura al contrario" (cfr. le opere di Dario Fo e Franca Rame) costituisce una via privilegiata per fare luce sui retroscena del sistema politico-culturale tedesco-orientale, conoscerne la logica e soprattutto svelarne l'arbitrarietà.
Nonostante qualche eccessivo sfilacciamento tra le due sezioni, il lavoro mantiene il proprio asse portante nella dettagliata ricostruzione degli itinerari culturali seguiti in primo luogo dal Centro Thomas Mann, in perenne concorrenza con l'occidentale Goethe Institut, e poi da autorevoli esponenti del mondo culturale italiano, come, solo per citarne alcuni, Cesare Cases, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Lucio Lombardo Radice, Gabriele Mucchi e Luigi Nono, le cui personali vicende sono ripercorse con estrema sensibilità e altrettanto senso critico, attraverso l'ausilio di un vastissimo materiale inedito tratto in parte dagli uffici governativi della ex Germania orientale e in parte dagli archivi personali.
Sotto questo preciso punto di vista, l'analisi dell'intenso e a tratti perfino commovente rapporto tra Luigi Nono e Paul Dessau, tra Robert Havemann e Lucio Lombardo Radice, lascerà pertanto delusi tutti coloro che, sulla scia di quanto sostenuto da Luigi Vittorio Ferraris, Mark Lilla e Victor Zaslavsky, spererebbero di trovare un'aperta denuncia nei confronti dei cosiddetti "intellettuali filo-tirannici", verso cioè tutti coloro che, benevolenti verso la dittatura della Sed, hanno mancato di fare i conti fino in fondo con se stessi e con la storia. Il ritratto che emerge dalla brillante ricostruzione di Magda Martini, capace di sfuggire al duplice rischio di trovare giustificazioni da un lato e di emettere condanne dall'altro, riporta infatti alla luce il profilo frastagliato di un rapporto estremamente complesso, talora ambiguo, ma senza dubbio non privo di dolorose lacerazioni. All'interno di questo panorama, l'autrice sottolinea altresì che, se fino agli anni sessanta il legame con la Ddr poté trovare alimento a partire dalla solidarietà ideologica e dalla comune condanna dell'esperienza nazi-fascista, dopo di allora esso seguì itinerari ben più tortuosi. Dopo l'invasione dell'Ungheria nel 1956 e ancor di più dopo il soffocamento della "primavera di Praga" nel 1968, non mutarono solamente le premesse alla base del rapporto tra gli intellettuali italiani e le istanze politiche tedesco-orientali, ma anche il modo stesso di concepire il regime della Ddr. Dagli anni sessanta in poi, la cultura abbandonò insomma la funzione di veicolo eminentemente propagandistico e assunse altresì quella di "sfera pubblica sostitutiva", nella misura in cui essa permise agli intellettuali italiani di entrare in contatto con la cultura dissidente e, grazie alle istanze critiche di cui questa si faceva carico, di contribuire alla nascita di una coscienza autenticamente democratica.
Nonostante alcune leggerezze circa questioni di importanza cruciale quali, per esempio, la natura politica del regime di Berlino Est e il significato della nozione di realismo socialista che, qualora fossero state maggiormente approfondite, avrebbero agevolato la messa a fuoco della politica culturale attuata dagli apparati tedesco-orientali , il volume di Magda Martini risulta nondimeno un lavoro eccellente, che ha il duplice merito di colmare gravi lacune, da un lato, e di segnare la via da percorrere per ulteriori approfondimenti, dall'altro.
Federico Trocini
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