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Fare esperimenti è una bella cosa, specie in un campo (come quello della filologia o della storia letteraria) in cui, di questi tempi, non mi sembra se ne facciano molti. Fare esperimenti è bello, bisogna però poterselo permettere: e Lina Bolzoni se lo può permettere. Il cuore di cristallo, appena apparso nella collana "Saggi" di Einaudi, costituisce per l'appunto un "esperimento", anzi, un libro che risponde a una serie di "provocazioni" lanciate verso di noi dalla cultura della fine del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento: lo rivela l'autrice stessa, non saprei se per consapevole dichiarazione o sotterraneo impulso a confessare. L'esperimento consiste nel realizzare un fittissimo intreccio fra testi e immagini, anzi fra differenti strati di uno stesso testo (gli Asolani di Pietro Bembo) e differenti tipi di immagini (autoritratti, ritratti doppi
); o forse sarebbe meglio dire che Bolzoni connette fra loro non una ma due reti: la prima, intertestuale, che da un testo del Cinquecento può condurre a Ficino, a Michelangelo, a Petrarca, su su fino agli autori latini; la seconda, "inter-visuale", che mette in relazione dipinti celeberrimi con medaglie note solo agli specialisti, immagini vere con immagini inventate, ritratti esibiti con ritratti gelosamente celati. Il cuore di cristallo ci mette insomma al centro di una doppia rete, tessuta di immagini e parole, che man mano si va richiudendo su se stessa.
Riassumere un libro così complesso non è facile, meglio dare perciò qualche esempio. Come si sarà capito, al centro di questa plurima rete stanno in primo luogo gli Asolani, l'opera che Pietro Bembo compose in un arco di tempo assai lungo (la prima edizione è del 1505, la seconda uscirà nel 1530) e le cui varianti costituiscono anche un'appassionante mappa dello sviluppo culturale, umano e sentimentale dell'autore. Dunque, siamo al momento in cui Il cuore di cristallo ci ha già mostrato che il testo degli Asolani si può interpretare come "uno sfaccettato ritratto dell'autore, che indossa via via maschere diverse, proiettando il proprio io sul palcoscenico del dialogo, sullo specchio della letteratura". Perottino, Gismondo e così via possono essere letti come altrettante "figure" di Bembo, la cui articolata personalità si traduce in una pluralità di personaggi letterari. Ciò detto, ci si potrebbe aspettare che l'autrice ci conducesse adesso verso altri testi che abbiano forma simile (ah, il "genere"!), o verso i "precedenti" o "modelli" che potrebbero aver guidato Bembo in questa sua scelta formale. Invece no (e per fortuna, dice il lettore). La pista è un'altra: un topos, o meglio un aforisma, quello secondo cui "ogni dipintore dipinge di sé", ogni pittura è in realtà un autoritratto. Si tratta di una massima che, fra Quattro e Cinquecento, appare condivisa da personaggi quali Cosimo e Savonarola, che Vasari mette in bocca a Michelangelo, mentre Leonardo, invocandola, avverte l'artista del rischio in cui può incorrere: "Quel pittore che avrà goffe le mani, le farà simili nelle sue opere". Bembo, proiettando se stesso nelle varie maschere, nei vari personaggi del dialogo dei suoi Asolani, sembra dunque rispecchiare, è il caso di dirlo, un impulso culturale molto contemporaneo: quell'empatia fra chi ritrae e chi è ritratto che, in quegli anni, viene giudicata tanto immediata quanto naturale. La rete del testo si salda così a quella delle immagini, la spinta a descrivere se stessi dietro paraventi di parole e di metafore, si identifica con quella a ritrarre se stessi dietro paraventi di immagini.
Un altro esempio, che da Bembo ci fa passare a Castiglione. Il lettore di Il cuore di cristallo si è appena misurato con l'enigma del gioiello a forma di "S" che, nel Cortegiano, adorna la fronte di Elisabetta Gonzaga, l'affascinante principessa di Urbino. Si tratta forse dell'iniziale di "Scorpio", il gioiello a forma di scorpione che una bella donna (identificata con la principessa Gonzaga) esibisce sulla fronte in un ritratto attribuito a Raffaello? O costituisce piuttosto un'allusione alle maglie a forma di "S" che componevano la catena d'oro donata a Castiglione da Enrico VII di Inghilterra? Se così fosse, bisognerebbe presupporre che l'autore del Cortegiano ne avesse donata una a Elisabetta, ovvero che ne avesse "proiettato" l'immagine (a un tempo fantasia e desiderio, empatia e metafora) sulla fronte della sua bella principessa letteraria. Ed eccoci di fronte a una nuova sorpresa: le due reti, quella dei testi e quella delle immagini, stanno nuovamente per chiudersi l'una sull'altra.
Negli anni cinquanta Vittorio Cian, ammesso a consultare le carte dell'archivio della famiglia Castiglione, trovò una copia di due sonetti, peraltro già noti, accompagnati da un'enigmatica dicitura: Sonetti dello specchio. Che cosa significava questa definizione? La risposta la dà una biografia secentesca di Castiglione, a opera di Antonio Beffa Negrini, in cui si dice che i due misteriosi sonetti sarebbero stati composti dal Castiglione "per (
) cagione di un amor troppo alto e troppo sublime": e che egli li avrebbe messi, "assieme a un ritratto di bellissima e principalissima Signora", dietro "un grande e bellissimo specchio, che si poteva aprire e chiudere da chi sapeva l'artificio". Si sarebbe dunque trattato di un complicato marchingegno d'amore, se così possiamo definirlo: uno specchio scorrevole, inserito in una cornice di legno, che, se fatto scivolare verso l'esterno, rendeva visibile sia il ritratto di donna celato dietro la sua rilucente superficie, sia i due "sonetti dello specchio". Di questi sofisticati oggetti ne possediamo ancora (uno, splendidamente intagliato, è riprodotto nel volume), e possiamo vederne il mirabile "artificio".
Il funzionamento di questo marchingegno, e soprattutto le sue implicazioni, sono affascinanti. Immaginiamo di conoscere anche noi l'artificio, e dunque di far scorrere lo specchio verso l'esterno: alla nostra sinistra è visibile adesso un ritratto di donna, accompagnato da due sonetti; mentre alla nostra destra sta la nostra immagine, riflessa nello specchio, a formare un ideale e segretissimo dittico dei due amanti. Un ritratto doppio, in cui l'amata ha presenza stabile, ma segreta, l'amante ne ha una visibile ma fuggevole, legata alla sua presenza/assenza di fronte allo specchio. Non a caso Apuleio (Apologia 14, 5 sgg.), mettendo a confronto le immagini speculari con quelle artificiose, ne rilevava in questo modo le differenze: l'immagine speculare è tanto somigliante quanto mobile, e se la sua presenza dipende esclusivamente da colui che si specchia (quando la persona non c'è, non c'è neppure l'immagine), essa riflette però in ogni momento la condizione presente della persona; al contrario, l'immagine artificiosa c'è sempre, indipendentemente dal proprio referente, ma blocca la persona in un certo status e in una certa fase temporale.
Nascosta nel segreto del marchingegno d'amore, dunque, Castiglione aveva della "principalissima Signora" un'immagine immutabile e fissata nel tempo: la sua invece, riflessa dallo specchio, era mobile e sempre contemporanea a se medesimo, mutevole, fedele riflesso dei vari stati della persona, delle sue affezioni, dei suoi anni. Questo singolare dittico costituisce dunque la concreta metafora di un amore che ha i connotati della permanenza (l'immutabile ritratto di lei) in una persona che, inevitabilmente, segue invece il flusso del tempo. La lettura dei sonetti, ugualmente celati dallo specchio e visibili solo al momento del suo scorrimento, faceva il resto: sia per i richiami "speculari" che a loro volta legano fra loro i due testi, sia perché la lettura provocava un'evocazione di lei non più solo in immagine, ma anche in forma di parole; mentre la presenza di lui prendeva vita non solo nell'immagine riflessa dallo specchio, ma anche attraverso la sua voce, presente e viva, che parlava di lei.
Il fatto è che Il cuore di cristallo, come questi due soli esempi possono mostrare, non è solo il risultato di una grande erudizione (sempre indispensabile, peraltro, quando si vogliono dire cose nuove), di finezza critica e di invenzione tematica. C'è qualcosa di più. Questo "esperimento" nasce anche da una convinzione, ossia che i fenomeni culturali, presi all'interno di una certa epoca, possano rimandare a uno stesso "genius", come diceva già Christian Gottlob Heyne; che essi presentino un set di costanti, una specie di metafisica nascosta (l'espressione che Benjamin Lee Whorf usava par parlare dei rapporti fra lingua cultura) la quale permette di connettere fra loro manifestazioni appartenenti a ordini diversi. Nella cultura del Cinquecento, e specie in quella di intellettuali come Bembo e Castiglione, immagini e parole, metafore e figure, personaggi e soggetti pittorici nascono già in rete fra loro. E un occhio che voglia essere interno a tale cultura, soprattutto se disposto anche a essere sperimentale, questa rete riesce a scoprirla.
Maurizio Bettini
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