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... ho iniziato a leggere De Silva dagli ultimi romanzi e forse è per questo motivo che quest ultima lettura non mi ha lasciato molto... sebbene sia un libro scritto bene e con degli spunti interessanti non lo considero tra i migliori di questo straordinario scrittore !
Sono d'accordo con il recensore dell'Indice, punto per punto, ma sono in totale disaccordo nella sostanza. D'altronde il recensore, nel suo commento che sembra carico di livore, si sofferma sui difetti di forma - "forma" nella sua accezione più superficiale: non la resa artistica e la costruzione narrativa, bensì la "parola", il "preziosismo", con tutte le ingenuità e le leggerezze che prendono FORMA quando ci si avvita in lirismi inutili - come capita spesso al buon De Silva. Il recensore dice NULLA, o dice pochissimo, sul romanzo. Cade cioè nella trappola della "correzione del maestro con la matita rossa e blu". La domanda che un recensore attento dovrebbe porsi è: ripulite queste pagine con un più attento (e necessario) lavoro di editing, cosa resta tra le mani? 1-Una cosaccia da buttare? 2-Un romanzo da rivedere? 3-Un romanzo pronto? La mia risposta è la 3. L'opera, sotto quelle incrostazioni, c'è. Mettendo per pochi secondi i panni, che poco mi si attagliano, del "maestro" potrei dire che narratologicamente il romanzo è perfetto. Pur nell'ambiguità quasi stordente della signora Ester (ma dovremmo saperlo: l'essere umano è pazzo, incoerente, malvagio, nessuna stranezza dovrebbe sorprenderci). La storia è piena di immagini potenti, che l'autore tratteggia con maestria: Santino che scende sotto casa con la padella, e ancora Santino che allontana il bullo con la benzina: sono momenti che ho trovato degni di Salinger. Quando la polpa è buona le "sviste" linguistiche passano in secondo piano: si possono sempre correggere. Da un recensore di professione ci si aspetterebbe una maggiore attenzione. Qui la figura del "linguista" non la fa De Silva, ma il recensore...
Non conta la trama, che pure è interessante, ma le descrizioni degli attimi, delle pause, delle conseguenze, dei movimenti, delle cose minime che il resto del mondo giudica inutili, non degne di essere notate. Questo romanzo sarà attuale pure tra cent'anni!
Recensioni
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Se dei bambini, quando Simona Vinci ha scritto (nel 1997) il suo primo fortunato romanzo, forse non si sapeva effettivamente niente, in questi ultimi anni mi pare di loro si sappia invece scandalosamente troppo. Perché esibire un bambino o un adolescente, oggi assai più di ieri, è quasi sempre sicura garanzia di successo: che siano gli inquietanti bambini-secchioni televisivi (da Sarabanda a Genius) o gli smagritissimi bambini, pure inquietanti, raffigurati in certe pubblicità finto-socialprogressiste, che siano le piccole vittime di guerre o attentati che rimbalzano quotidianamente alle cronache o i giovani o giovanissimi protagonisti di film e romanzi, risucchiati tragicamente dal male (Certi bambini), finiti nelle mani di rapitori, mostri o pedofili (da Io non ho paura a Evilenko a La mala educación), costretti a sopportare il peso di un grave handicap (Le chiavi di casa). Anche Diego De Silva non si lascia sfuggire la ghiotta occasione e, dopo proprio Certi bambini, ci riprova con questo Da un'altra carne, dagli infelicissimi esiti.
Il risvolto della quarta di copertina annuncia che i pensieri dei vari personaggi dell'opera "si fanno sempre più corposi e strani e sgangherati". In realtà a farsi (anzi a essere) sempre più strani e sgangherati, in questo bizzarro romanzetto, sono non solo i pensieri dei personaggi o i personaggi stessi (a partire dalla madre del protagonista, Ester Traversari, che prima vediamo abbandonare come un cane Salvino, il bambino portatole in casa dal figlio Guido, e poi sorprendiamo, in una sagra paesana, ad applaudire con nonchalance un complessino rock e mangiare fusilli); la stramberia coinvolge infatti anche le modalità espressive. Lo studioso dei macro e microsistemi narrativi lascia così volentieri il suo posto al linguista di mestiere, che se pure lui, come il grande Omero, quandoque dormitat, in casi del genere è tenuto ben sveglio dall'eccezionalità delle circostanze.
Si potrebbe cominciare dalla fastidiosa scrizione mò "ora", già presente in Certi bambini e qui ripetuta più volte, che si sarebbe tanto preferito sostituita da mo'. E si potrebbe quindi proseguire con i denti digrignati "dietro la bocca chiusa" del vecchietto di un ospizio, come se fosse possibile digrignare i denti senza mostrarli (forse si voleva dire sfregare o arrotare?). Con il rettangolo rovesciato disegnato nell'aria con l'indice da Bloccasterzo (uno dei piccoli amici di Salvino), che sta mimando il titolo di un film: se si rovescia un rettangolo, se lo si ruota, cioè, di centottanta gradi, si ottiene la stessa figura di prima (non così se si volta sottosopra, se si rovescia appunto, un triangolo o un trapezio) e allora si doveva dire per esempio, se si voleva far capire l'azione compiuta, in posizione verticale. Con la busta catalogata in fretta dalla suora dell'ospizio a cui Ester ha portato delle cose: più che la busta la brava suora avrebbe forse dovuto catalogare "con quelle sue mani competenti" gli oggetti contenuti in essa. Ce n'è anche per Salvino, che seduto davanti nell'automobile condotta da Guido improvvisamente " si ribalt [a] sul sedile e, aggrappandosi al poggiatesta con tutt'e due le mani, si affacci[a] all'indietro": riassumendo, il bambino, come in un numero da Cirque du Soleil, prima si capovolge, poi a testa in sotto, con un poderoso colpo di reni, si rimette diritto, infine afferra il poggiatesta e comincia a guardare dietro. Non sarà che Salvino, semplicemente si volta?
Non diversa sorte tocca a talune descrizioni di gesti o movenze di cui si fanno di volta in volta carico i vari personaggi, a talune metafore, a taluni paragoni. Ester, anche lei con Salvino nell'auto condotta da Guido, tiene le braccia "abbandonate sul sedile, come se dovesse donare il sangue"; più che in attesa di un prelievo sembra ormai rassegnata a un salasso. Si prenda ancora la spazzola puntata " come fionda per le invettive" contro Rocco, l'altro figlio di Ester, dalla moglie: un'invettiva si può anche lanciare, naturalmente, in modo tale da giustificare il ricorso all'arma da lancio (o da getto) che è la fionda, ma in nome di quale trasposizione semantica una spazzola può diventare una fionda? S'è mai vista una spazzola puntata minacciosamente verso qualcuno assimilata a una fionda? E Salvino che si trascina alla volta di un portone "come una valigia inzuppata" non è singolare prosopopea di una valigia che dovrebbe essere trascinata anziché trascinarsi? E Guido che dorme "sul fianco destro, la testa poggiata sul cuscino piegato in due, come un salsicciotto nemico catturato per il collo "? E la delusione che ricopre Ester "come una vernice" mentre butta gli occhi "come sassi nell'acqua"? E come funziona il pudore che va "in automatico"? Cos'è "quella specie di piano rialzato della coscienza dove tutto è a metà"? Passi per la " faccia da cocker per sdrammatizzare l'accaduto", ma qual è la esattamente la faccia di una "volpe braccata"?
La soluzione straniante poteva risiedere nel rifiuto della razionalità analitica della comprensione in favore dell'irrazionalità sintetica della visione, secondando la citazione di Goffredo Parise in epigrafe: "Non c'è niente da capire, basta guardare". Se però alla stravaganza del senso si aggiunge la stravaganza dei gesti osservati allora non c'è più niente nemmeno da guardare. Se Guido conosce la "sintassi del male" (l'asma) di cui soffre Salvino, a Diego De Silva sembrano più familiari i "gesti svuotati di costrutto" di Ester. Gesti inutili, come sono inutili i semicerchi che la donna delusa fa con la testa e gli oggetti su cui si posa il suo sguardo e quello di Salvino, come è inutile la condomina curiosa affacciata alla finestra al passaggio della stessa Ester e del bambino. Estremamente significativo, e persino struggente, ci sarebbe parso invece l'ultimo gesto di Ester, che stringe il pugno e se lo porta alla bocca "come faceva da bambina quando suo padre tornava da uno dei suoi viaggi, e la gioia e la vergogna di vederlo le facevano venire voglia di mordere". Sennonché ci viene subito in mente, rovinandoci l'occasionale godimento estetico, un pezzo di pane portato alla bocca da Rosario, l'undicenne protagonista di Certi bambini: "Sarà quanto un pugno. Se lo infila in bocca in una volta. Butta giù la testa e divora. I bocconi sono grossi e fanno male quando ingoia". Quanto un pugno, certo. E che sarà, non avrà mica la mano di Primo Carnera il piccolo Rosario. Sarà un boccone difficile da masticare ma piano piano andrà giù. A ripensarci, però, il boccone non era la "quantità di cibo che si può mettere in bocca in una sola volta" (Zingarelli)? Forse Rosario, dopo il primo, si sarà messo in bocca altri pezzi di pane grossi quanto un pugno. O forse dopo essersi messo in bocca quell'unico pezzo di pane, non riuscendo a masticarlo, se lo sarà alla fine ripreso con le sue manine e avrà cominciato ad addentarlo pezzo per pezzo. Chissà.
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