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Anno edizione: 2018
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Confesso che ho letto il libro nella prima versione fattane in italiano nel 1988 (tradotta dal tedesco, non dall'ebraico, e più breve), trovandolo ancora, incredibilmente, in una piccola libreria: una cosa che sarebbe piaciuta, suppongo, al bibliofilo ossessivo che fu Scholem. Il racconto degli anni della sua formazione scorre piacevolmente e rende la complessità dell'ebraismo tedesco nell'epoca tormentata di Weimar. Un capolavoro di questa prima traduzione merita una citazione: a pag. 88 si legge "ci piacquimo". Neppure la fantasia di un Totò avrebbe potuto tanto.
Il giovane Gershom Scholem e il suo folgorante incontro con la mistica ebraica. Lo studio, insomma, fu per Scholem sempre un cammino teso in avanti, dritto come quel viaggio da Berlino a Gerusalemme. La Torah, ovviamente il Talmud ove «Delle dieci parti di bellezza che giunsero nel mondo, Gerusalemme ne prese nove» (Talmud, Kiddushin 49b), ma per Scholem soprattutto lo Zohar (il cuore della Kabbalah) affrontato prima da aspirante seguace e poi da filologo appassionato. Sono davvero mirabili queste pagine in cui il contatto vivo con i testi s'avvicenda a quello di luoghi, persone, grandi sentimenti, in quel continuo avvicendarsi di scoperte.
Un libro zeppo di nomi, quasi si trattasse di un elenco telefonico, sebbene di uomini e donne che hanno lasciato un segno nella cultura europea. Freddo nella rievocazione, scarno nella prosa, condotto più con lo stile citazionista di un saggio che con il calore del ricordo. I bozzetti dei personaggi e la descrizione degli incontri non raggiungono vette di particolare godimento letterario. E' tuttavia un libro istruttivo che ci pone dinnanzi la drammatica ottusità di persone intelligentissime che non furono capaci di intendere la catastrofe cui stavano andando incontro. E una riflessione s'impone al lettore attento: ciò che era considerata utopia dai molti (la fondazione dello stato d'Israele) diventa realtà per la fede e la determinazione dei pochi che vi credettero e lottarono. I più, rimasti in Germania nella convinzione che Hitler fosse un volgare incidente di percorso della civiltà tedesca, furono travolti per non aver dato ascolto a quanti fra di loro li ammonivano, e che per questo subirono da parte della loro stessa gente un insensato ostracismo. Non sempre il buon senso ha senso; non sempre l'utopia è una perdita di tempo. In fondo proprio questo è uno dei nodi che spesse volte ci troviamo a dover sciogliere nella vita, il bivio che ci si presenta, fra ostinazione e buon senso. Scholem ci offre senza didascalia l'esempio di una scelta apparentemente azzardata che si realizza ad onta di ogni previsione, con l'indispensabile corollario di tanto lavoro (nel suo caso lo studio) e di privazioni. Nulla ci è dato a gratis. Un libro comunque da leggere per gli appassionati di storia della civiltà ebraica. Un voto di affetto per Scholem.
Recensioni
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L’autoinganno dell’assimilazione, il miraggio di sentirsi a casa nella patria tedesca, una giovanile illusione foriera di future catastrofi. Nel primo scorcio del Novecento la comunità ebraica di Berlino (quasi centocinquantamila persone) che aveva raggiunto un certo benessere e non era particolarmente rigida su pratiche e riti religiosi, era decisamente in crisi sul piano spirituale, guardava con fastidio alle idee sioniste, sopportava appena i più intransigenti e ortodossi fra i propri componenti e spasimava per una inclusione nella società. Una sciagurata e collettiva crisi d’identità, pennellata in un “affresco” da uno dei suoi figli più colti e rappresentativi, Gershom Scholem, morto nel 1982 a 85 anni, intellettuale di immensa statura, studioso di mistica ebraica e cabala, storico delle religioni e filosofo, amico di Buber, Agnon e Benjamin. Pubblicata da Einaudi, nella traduzione dall’ebraico di Saverio Campanini, l’autobiografia intellettuale di Gershom Scholem, Da Berlino a Gerusalemme (290 pagine, 20 euro), racconta il primo Novecento ebraico e non in Germania, un popolo disorientato, davanti al precipizio degli anni successivi che culmineranno nell’abisso della Shoah.
È un libro commovente, perché è un libro sulla gioventù, su un viaggio interiore e fisico, su un dolore lungo decenni, una storia personale che si intreccia con quella collettiva; è il racconto di un punto di osservazione minoritario in terra tedesca ai primi del ventesimo secolo, quello del sionismo, è un doppio no, al nazionalismo tedesco (di cui era convinto sostenitore anche il fratello Reinhold) e al comunismo (abbracciato dal fratello Werner, che sarà ucciso nel lager di Buchenwald nel 1940), è la libera scelta di sbarcare in Israele a metà degli anni Venti: lì Scholem sarà tra i fondatori dell’università ebraica. Negli anni precedenti il giovane Gershom rifiuta di percorrere il solco paterno e tronca il rapporto col genitore (padrone di varie tipografie), evita la chiamata alle armi; lui e la sua anima avevano scelto la strada della lettura senza sosta, la voglia di tornare alla tradizione, di imparare l’ebraismo, di scovare vecchi volumi nelle librerie antiquarie e di perdere la concezione del tempo in settimane interamente trascorse nelle biblioteche: lascia nel 1919 gli studi matematici e naturalistici, per i quali è anche portato, e sceglie di dedicarsi a filologia e mistica.
Gershom Scholem, in questo personalissimo libro (ne esistono due versioni, una in tedesco del 1977 e una in ebraico del 1982) narra le prime scelte dell’età adulta, un’epoca scomparsa e la scelta morale di andare in Palestina, «una decisione presa a favore di qualcosa che allora ci sembrava inequivocabilmente un nuovo inizio». Si ritrae sedicenne, colmo di emozione, mentre legge per la prima volta il Talmud, nell’impatto con una tradizione millenaria, nella scelta di sprofondare nello studio con dedizione totale. Il progetto di rinnovamento a cui aspira può trovare risposta solo nel sapere del mondo ebraico, nel ritorno alle origini, nell’opposizione al microcosmo tedesco in cui è cresciuto e in cui si allontana negli anni degli studi: si interessa, in modo inquieto, a mistica e chassidismo; al giudaismo laico, alla follia nazionalista tedesca e al crescente antisemitismo (all’«incapacità di giudizio» degli ebrei su cosa stesse succedendo loro) che avrebbero condotto alla Shoah, oppone la religione dei padri, il recupero dell’antico ebraico, un lucido sionismo, non profano e secolare come poteva apparire, ma di natura mistico-religiosa e anarchica.
Recensione di Micol Treves
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