In origine e per lunghissimo tempo fu la tradizione; nel senso che comportamenti individuali e collettivi si uniformavano alla tirannia spirituale, così la chiama Luciano Pellicani, di quell'"eterno ieri" di cui ci parlò invece Max Weber. Insomma, la fede nelle cose tramandate era la base spirituale su cui si poggiava la civiltà antica e buona parte di quella medievale. Nelle città primitive, dell'antica Grecia e ancor prima, le istituzioni politiche erano state istituzioni religiose, nel senso che le feste erano sempre cerimonie del culto degli dei, le leggi erano formule sacre e i re e i magistrati erano sempre sacerdoti. La sacralità di un'istituzione significava che essa era sottratta a ogni possibile esame critico. Poi giunse la filosofia, che ha prodotto la tradizione dell'anti-tradizione. Seguì dunque la rivoluzione rappresentata dalla civiltà comunale, dai suoi costumi e dalla sua organizzazione interna, dalla filosofia che esprimevano i suoi ceti più originali, quelli che andranno a formare la borghesia dell'età moderna. La secolarizzazione è il portato più importante e dirompente dell'affermazione progressiva di questa nuova classe sociale, che a lungo però imiterà la nobiltà di origine feudale, facendone oggetto di emulazione. Pellicani intende comunque cogliere le tendenze che hanno condotto fino al primato della "città secolare", dei suoi usi e delle sue antropologie politiche e sociali, tutte incentrate sull'uso pubblico della ragione, sul laicismo e perciò sulla tolleranza e sul relativismo. Ricchissime, come sempre, le citazioni, che acculturano qualsiasi lettore di questo libro. Forte è la polemica con le tesi neocon e teocon, sorte nell'ultimo decennio anche in Italia, ma è nell'analisi che Pellicani offre il meglio di sé, e aiuta a comprendere la genesi della modernità, la sua essenza e originalità. Danilo Breschi
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