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Critico nei confronti della politica americana e dei modelli culturali dominanti, Derek Walcott demanda alla poesia il compito di pungolare le menti e le coscienze della gente, perché «i poeti muovono sempre le acque», instillando nei lettori dubbi e domande che non possono venire esaudite con soluzioni materiali, ma riguardano la condizione umana più in generale, la sua finitudine che si scontra con l’ansia di infinito, il quotidiano che aspira all’assoluto. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica ideale, poiché ne intuiva la pericolosità e la capacità di resistenza e ribellione. In questo libriccino, introdotto da un’esemplare prefazione di Luana Salvarani, Walcott espone tesi coraggiose e controcorrente, sfidando i luoghi comuni e i pregiudizi che comunemente si nutrono nei confronti della composizione in versi. La quale non può e non deve risultare da un facile spontaneismo, da una superficiale improvvisazione: si basa invece sullo studio approfondito della tradizione, e va esercitata con l’esercizio tecnico, usando il labor limae dell’imitazione e della traduzione. E se la fruizione della poesia e dell’arte è un diritto di tutti, promosso doverosamente da ogni democrazia, la produzione dell’arte e della poesia non spettano a tutti. Che chiunque possa auto-definirsi poeta, senza esprimere una reale qualità formale o di contenuto, risulta dannoso e illusorio sia per chi scrive sia per chi legge. «Non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare, non mi rende un grande scrittore». Se il poeta vuole farsi portavoce di un sentire universale, deve per prima cosa conoscere se stesso, «scivolare dentro la propria voce», renderla più forte e sicura, in un continuo e mai facile sforzo di ricerca e di superamento dei suoi limiti.
Sono sicuro che la prima cosa che si farà dopo aver finito questo libro è riaprirlo, ripercorrerlo, decantarlo in una breve sospensione prima di ripartire poi in una necessaria rilettura. Tanti sono gli spunti, i ricami, le sorprese custodite in queste tre interviste che definirlo un distillato di gioia è appena un magrissimo elogio. Walcott è di una sincerità commovente, percorre la sua vita e la storia delle sue parole, del suo mondo interiore, dispensa qua e là perle di esperienza e non fa alcuna fatica ad ammettere il mistero che abita il verso, il mito che lo culla, la voce prima fondante e sorgiva. E ancora luci e luci su alcuni poeti amici, invettive pregne di dolcezza e critiche mai forzate. L'invidia dei poeti americani per il filo spinato sovietico, negli anni in cui ad Est poesia e dolore coincidevano quasi come un parto gemellare, la poesia civile come pericolo sempre aperto e rifugio insieme contro le butterate mura del potere (Walcott ricorda Auden quando dice, a proposito appunto di poesia politica: "quando volete scriverne una scrivete una poesia sul vostro cane e nascondetela". Fino alla meraviglia di una citazione di Pasternak, vero semplicissimo manifesto dell'essere e del fare poetico: "Il poeta non ha il tempo per essere originale". L'idea cioè che lo stupore e la bellezza, il cielo e la sfinge sovrastino così tanto ogni realtà umana a sfiorarli che perdere tempo a fissare un dettato nuovo a tutti i costi è solo una penosa forzatura. Il poeta scava la parola, la veste e la incontra, la accarezza e la fonde, ma in fondo è nella voce che chiama l'inchiostro tutto il divino che ne dà l'esito. E lì non c'è bisogno di chissà che originalità, è vero. Quando fra qualche anno farete pulizia fra le vostre cose e darete via alcuni vecchi libri, questo lo conserverete, rimarrà con voi, ne sono certo. E' un vero fiore dello spirito, eterno e fragrante.
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