La più disarmante parodia dell'Inquisizione si deve a Mel Brooks con il regista-attore nelle le vesti violacee di Torquemada. Si tratta della rappresentazione demenziale e disincantata di una denuncia e di un mito di lunga durata e solide basi. Perché, se per quanti sostennero la liceità di colpire il dissenso in materia di fede, sin da Agostino, l'eretico andava spogliato dei beni in quanto spinto a deviare non solo dalla lussuria e dalla superbia, ma dall'avidità (come Giuda e Simon Mago), la durezza della repressione che si scatenò nel tardo medioevo e in età moderna portò a un'accusa di segno opposto mossa da quanti rifiutavano l'obbedienza alla chiesa o ai suoi mezzi coercitivi estranei ai precetti evangelici: quella secondo cui gli inquisitori combattevano i loro nemici per accaparrarsene le sostanze con menzogne e minacce. L'accusa ebbe fortuna già nel XIV secolo, al tempo delle dispute sulla povertà e delle campagne antivaldesi (gli inquisitori erano frati degli ordini mendicanti); ma fu con la nascita dei nuovi tribunali di fede centralizzati di Spagna e Portogallo, e poi del Sant'Uffizio romano, che ebbe fortuna. Così alla crudezza dei fatti si sovrappose l'icona del magistrato assetato di patrimoni e la leggenda nera fu alimentata dagli esuli religionis causa, dalla diaspora ebraica, dai martirologi protestanti, riversandosi infine nei racconti gotici. Erasmo e Agrippa di Nettesheim, prima della Riforma, puntarono il dito contro la rapacità dei frati, smascherando anche gli abusi commessi nella caccia alle streghe; poi sono seguiti gli storici con il lavoro sulle fonti. Nel 1598 il primo memorialista dell'Inquisizione spagnola, Luís de Páramo, disse che la confisca era stata istituita nel momento in cui Dio, prototipo del giudice di fede, aveva interrogato Adamo e l'aveva castigato sottraendo ogni bene a lui e alla sua discendenza. Ma a distanza di secoli, cessato il tempo delle controversie e delle genealogie incredibili, gli studiosi del tribunale, a partire da Henry Lea, si sono interrogati sul tema del denaro degli inquisitori in una chiave tutt'altro che apologetica. Come ha scritto Cecil Roth nella sua storia dei marrani (1932), pensando alla penisola iberica, "l'arma più terribile di cui l'Inquisizione si serviva, oltre (alla) pena di morte, era la confisca (...). Fu grazie a questo diritto che l'Inquisizione si elevò al grado di corporazione di così vasta influenza e ricchezza. Era infatti interesse dell'Inquisizione dichiarare colpevoli tutti coloro che le comparivano dinanzi, specie quando si trattava di persone molto ricche. L'arma della confisca colpiva in pieno una famiglia, riducendola (...) alla miseria, (e) l'intera economia del paese". Difficile dargli torto, se si pensa allo sconvolgimento che provocò la nascita dell'Inquisizione spagnola, ai suoi primi cinquant'anni di attività, alle ripetute condanne a morte e confische, alla pratica di spogliare le famiglie degli imputati dal momento del sequestro e prima della condanna, alla rigida applicazione del diritto che legittimava la punizione di figli e di nipoti anche innocenti dichiarati infami e inabili a ereditare, alle norme che sin dal Trecento prevedevano che il dominium sui beni non fosse più valido dal momento in cui un crimine di fede era stato commesso (anche se ignoto ai giudici). In forza di tale canone le spoliazioni finivano per colpire ignari compratori di beni e titoli appartenuti a eretici occulti, spossessati senza colpa. Il timore e le rivolte che suscitò il tribunale spagnolo nei Paesi Bassi, a Napoli, a Milano fu dovuto soprattutto alla paura che un'Inquisizione di tipo iberico sconvolgesse i traffici e i patrimoni delle famiglie. E non fu da meno l'Inquisizione portoghese, che dalla fine del Cinquecento e dopo il 1640 ricorse alla confisca contro i conversos incamerandone le sostanze. In Spagna e in Portogallo (e nei loro imperi coloniali) gli officia fidei erano emanazioni della corona, che si giovò dei patrimoni acquisiti per rimpinguare le casse del fisco. Ma cosa succedeva in Italia, dove l'Inquisizione, con l'eccezione di Sicilia e Sardegna, dipese dopo il 1542 dalla sede apostolica e dal pontefice, agendo negli stati secolari di una penisola priva di unità politica? Che il Sant'Uffizio romano, dopo l'emergenza antiereticale (1540-1580), abbia fatto poco ricorso alla confisca, schivando l'immagine negativa del tribunale spagnolo e dettando regole precise per controllare la gestione dei distretti periferici, è cosa risaputa. Tuttavia con il libro di Maifreda la trama dei rapporti tra denaro e Inquisizione nell'Italia moderna è dipanata in modo complessivo, guardando ai due risvolti del problema: ovvero a come il tribunale si è sostentato a livello centrale e locale e a quanto ha inciso globalmente sulla vita economica della nostra penisola. Senza trascurare la comparazione con il mondo iberico, e facendo tesoro di ricerche sulla gestione del tribunale spagnolo, Maifreda analizza libri di conti spediti con regolarità a Roma e inchieste patrimoniali settecentesche, documenti milanesi e carte vaticane, e se ricostruisce in che misura le confische costituissero i remoti pilastri materiali di molte sedi dell'Inquisizione, evidenzia pure che la stabilità economica degli uffici fu dovuta in buona parte alla scelta della sede apostolica, dopo gli anni del papa inquisitore Pio V (1566-1572), di attribuire ai singoli distretti alcuni benefici sottratti principalmente alle diocesi. Le confische comportavano conflitti con le famiglie e i poteri locali (si trattasse di duchi, signori o governi repubblicani che rivendicavano accordi di spartizione con l'Inquisizione), mentre più agevole si rivelò, per una gamma sempre più ampia di delitti, il ricorso a pene pecuniarie che venivano intascate per intero e con maggiore facilità e sopperivano a bisogni immediati. D'altra parte i cardinali del Sant'Uffizio seppero ripianare i bilanci traballanti spostando risorse da un ufficio ricco a uno povero, e fecero derivare i denari in uso alla Congregazione dalle ferriere e dalla tenuta laziale di Conca. In ogni modo, affittare o gestire pezzi di terra, edifici e botteghe (in alcuni casi donati dei fedeli) fu prassi corrente per i giudici, che dovevano mostrare capacità punitiva e imprenditoriale. Si spiega così l'investimento di somme in titoli di debito o dei Monti di Pietà e nella concessione di prestiti con pagamento di un interesse. La chiesa aveva preso a legittimare da tempo ciò che poteva configurarsi come usura, e non stupisce che tali pratiche economiche siano state adoperate anche dall'Inquisizione. Comunque sia i frati, nelle sedi di destinazione, dovettero agire in un regime di relativa scarsità che ebbe eccezioni ma pare evidente, specie se comparato alla ricchezza complessiva della Chiesa. E tuttavia tale scarsità, come giustamente scrive Maifreda, fu funzionale alla formazione di un habitus, quello del giudice sobrio ed economo, e di un ethos dell'ufficio, quello del funzionario incorrotto. Senza quei codici di condotta "difficilmente il Sant'Officio avrebbe mantenuto (...) il radicamento sociale e la sostanziale condivisione, entro larghi strati della popolazione (...), dei suoi obiettivi". Del resto, oltre che con i poteri secolari, con la riluttanza dei vescovi e col giudizio dei fedeli, gli inquisitori dovevano vedersela con i priori e i confratelli, domenicani e francescani, che ospitavano i tribunali locali in un regime di coabitazione che innescava conflitti e passaggi di denaro che Maifreda evidenzia; né l'autore dimentica che le sostanze del tribunale servivano a usi pii che costituiscono l'altra faccia della coercizione. Ma il libro di Maifreda (non privo di qualche errore di trascrizione) è importante soprattutto perché ci ricorda che la storia delle confische e dell'economia del tribunale non può essere separata da quella complessiva della repressione del dissenso religioso e della chiesa moderna. E infatti, oltre che sulle strategie di autodifesa delle famiglie dissidenti nel momento di stilare i testamenti; sulle esenzioni fiscali di cui godevano i beni degli inquisitori; sui costi di un autodafé, delle poste e del mantenimento dei prigionieri poveri, le carte degli espropri forniscono notizie su eretici e casi ignoti di stregoneria. Si potrà discutere l'ipotesi secondo cui la scarsità di risorse contribuirebbe a spiegare i momenti di disimpegno giudiziario del tribunale o il ricorso, assai frequente dal Seicento in poi, a procedure sommarie di "spontanea comparizione" con sconti di pena elargiti ai pentiti. Ma è un fatto che la confisca costituì uno dei momenti pubblici di una strategia di sorveglianza che si voleva segretissima, e che la paura degli espropri come mostra la parte più innovativa del testo incise sulla fiducia dei mercanti esteri che avessero scelto di investire in terra cattolica e forse sul discusso declino seicentesco della penisola. Limitata la mobilità degli stranieri e dei mercanti italiani recantisi oltralpe, il tribunale seppe intervenire nello spazio economico di antico regime da un lato guadagnando la fiducia di creditori e affittuari e dall'altro incidendo sulla libera circolazione del denaro, oltre che delle idee. Maifreda lo mette assai bene in luce, stilando una storia sociale dell'Inquisizione alla fine della quale i giudici di fede ci appaiono come temuti magistrati ma anche, un po', come prosaici travet. Vincenzo Lavenia
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