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Anno edizione: 2021
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Un Pavese (1908-1950) inedito e inaspettato, per noi che l’abbiamo conosciuto e amato leggendo i suoi romanzi secchi e disperati, il diario, le poesie petrose di Lavorare stanca: è quello proposto da Garzanti ne “Il desiderio mi brucia”, che raccoglie versi amorosi scritti a partire dall’ottobre del 1923 fino al 1929, con l’inserimento di pochi testi più tardi. Le composizioni adolescenziali sono assolutamente e retoricamente tradizionali, nel solco della poesia romantica ottocentesca e forse anche della librettistica d’opera, molto rimate, metricamente composte e regolari, tematicamente prevedibili e ridondanti. Le immagini sono quelle, consuete, del desiderio sensuale fervido e appassionato, della brama di possesso negata, del sogno irrealizzabile, della delusione più amara e avvilente. Dalla doppia quartina inziale (“Oh, vagare con lei la sera scura, / perderci tra le piante ed ascoltare / le strida rauche su per la pianura / tremule come la luce stellare!”) ad altre dedicate a un quadro di D.G. Rossetti, o a un’attrice idolatrata (“Ti vidi un giorno per alcuni istanti / e so che mai potrò più rivederti”), fino al turbamento smanioso. Si tratta di evidenti esercizi stilistici di un ragazzo che coniuga la passione per la poesia con le prime inquietudini sessuali e i complessi tipici dell’età, vagando dal più estenuato romanticismo al timore del confronto e alla voglia di sfregiare volgarmente la figura femminile. Stilnovo e Baudelaire si fondono nelle prime prove letterarie di Pavese. Sono già presenti in questi versi giovanili alcuni caratteri tipici delle donne raccontate dallo scrittore maturo: la voce roca, i capelli fini e biondi, i denti forti, la gola fresca, le gambe nervose: attributi più idealizzati che concreti, di un eterno femminino perseguito per tutta la vita. Avvicinandosi al traguardo cercato, Pavese sembrò volersi asciugare da ogni concessione all’enfasi e all’artificio, per raggiungere l’essenzialità a cui si riduce sempre il dolore.
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