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Il "mondo delle idee" di Platone e di Popper va trasferito dal cielo alla terra. Senza negare l'oggettività del sapere, David Bloor affida alla sociologia della conoscenza il compito di spiegare la natura profonda dell'impresa tecnico-scientifica. Questo libro costituisce dunque una sorta di manifesto del programma forte della sociologia della scienza, secondo cui anche le procedure più astratte e formalizzate possono essere ricondotte a operazioni del mondo sociale: conflitti, convenzioni, negoziazioni, patti, istituzioni e così via. Bloor smonta il mito della "purezza scientifica" muovendo dai "quartieri alti" della ricerca, a cominciare dalla matematica e dalla logica. Il suo approccio combina in modo originale Mill e Frege, Mannheim e Wittgenstein, Lakatos e i classici dell'antropologia. Creatività scientifica e lavoro di ricerca appaiono dimensioni della vita non più scisse dalle altre. Non diversamente da come accade nella politica, esse rimandano a un complesso di pratiche sociali, governate non da criteri metastorici, bensì da una flessibile logica della situazione, aperta al cambiamento e all'innovazione e analoga a quella che opera in un'azienda o in un tribunale. Comparso in una prima versione nel 1976 e da anni al centro di un polemico dibattito che ha diviso storici, filosofi e sociologi della scienza, il libro è stato corredato, fin dalla seconda edizione in inglese (1991), di una replica ai critici che si conclude con un elogio dell'eresia come fattore di crescita sia nella scienza che nelle altre sfere dell'attività umana.
scheda di Marconi, D., L'Indice 1994, n.11
Se questo libro fosse stato tradotto all'epoca della sua prima edizione, negli anni settanta delle api e degli architetti, le pagine culturali dei quotidiani ne sarebbero state piene. Così, esso si presenta come un reperto dei tempi (ideologici.) in cui ci si accaniva a dimostrare il "condizionamento sociale della scienza", o a negarlo radicalmente tranne che nei suoi aspetti più ovvi (il finanziamento della ricerca, ecc.). Spente queste passioni, il libro-manifesto del "programma forte" della sociologia della scienza può forse essere meglio valutato nei suoi punti di forza (pochi, ma importanti) e nelle sue (molte) debolezze. Per il programma forte, a essere oggetto di spiegazione sociologica è il contenuto stesso delle teorie scientifiche, non solo le circostanze della loro produzione; e devono essere ricondotte alle loro cause sociali non soltanto le teorie oggi giudicate false, ma anche quelle ritenute vere. Ciò, naturalmente, scandalizza chi ritiene che le teorie vere siano il prodotto della Ragione e dell'Esperienza (mentre le teorie false, frutto di errori e pregiudizi, possono benissimo essere abbandonate alla sociologia). Lo scandalo presuppone una certa confusione tra ragioni e cause, che Bloor a sua volta non aveva fatto molto per dissipare. Che una teoria scientifica sia adottata da certi scienziati anche perché fa in qualche modo il gioco di determinati gruppi sociali non ne inficia di per sé la validità, che dipende dalle ragioni che la teoria ha dalla sua, indipendentemente dalle cause per cui è stata prodotta o adottata. Quindi il programma forte non minaccia la razionalità delle credenze scientifiche. Il punto è semmai che esso è risultato di difficile attuazione: gli esempi di condizionamento sociale di contenuti scientifici che si trovano nel libro di Bloor (come in molti altri) sono assai poco convincenti. Tra l'altro, si confonde spesso tra fattori sociali e determinanti ben più vaghi, come concezioni del mondo, atteggiamenti, valori ecc.; come si confonde tra teorie scientifiche e atteggiamenti epistemologici e scelte metodologiche. Invece, come ricorda Dal Lago nell'introduzione, è stato merito della sociologia della scienza (e, si deve aggiungere, della storia della scienza) portare alla luce lo scarto "tra il cielo della verità epistemologica e la realtà delle pratiche scientifiche", cioè mostrare quanto poco il modo di procedere degli scienziati si conformi a presunti standard di razionalità. Il che non tocca la validità dei risultati raggiunti, che - ripetiamolo - dov'essere valutata indipendentemente dai modi in cui sono stati conseguiti.
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