Nonostante i primi tentativi di tracciare una vita del diritto attraverso la vita dei giuristi risalgano al XVI secolo, nel corso del Novecento, il dato biografico è stato gradualmente espulso dalle grandi opere di sistemazione della cultura giuridica, come se la biografia “non dovesse contaminare la purezza dei concetti e le costruzioni dommatiche”. Le poche voci biografiche presenti erano riservate sempre ai maggiori maestri teorici, escludendo gli autori più invischiati nella pratica giudiziaria o avvocatesca. Teoria e pratica dovevano restare mondi separati. Il Dizionario biografico dei giuristi italiani (700 collaboratori 2159 voci) nasce come reazione a questo stato di cose.
L’intento dei curatori è di ridisegnare in profondità il ruolo della cultura giuridica in Italia, dove dal tardo medioevo in avanti il nesso fra diritto e politica è strettissimo: sia perché il lessico del potere ha mutuato gran parte dei suoi strumenti concettuali dal diritto, sia perché, storicamente, i giuristi hanno rappresentato il nerbo dei ceti di governo negli stati di antico regime e in quello unitario. In questa prospettiva, l’aspetto pragmatico delle scelte professionali e politiche dei singoli autori influenza direttamente la stessa costruzione dogmatica delle loro opere. L’interpretatio dei testi giuridici e delle leggi (su cui si fonda l’attività scientifica dello iurisperitus di professione) resta infatti un’attività arbitraria e discrezionale che dipende, in buona misura, dalla coscienza “professionale” dei singoli. Come dottore o come giudice, il giurista possiede (o si prende) gli strumenti tecnici per “qualificare” il reale in termini giuridici e adattare la legge al caso singolo. Il legame con il potere politico è dunque vincolato da questa relativa ma preziosissima autonomia dottrinale, ingigantita, nel caso italiano, dalla lunga durata del valore “legale” della giurisprudenza (decisioni e pareri dei giuristi). In assenza di legislazioni coerenti e unitarie, le multiformi “opinioni” dei giuristi hanno rappresentato per secoli la trama dei rapporti fra legge, diritto e potere.
Il Dizionario, con il suo impianto biografico-culturale, coglie bene questo nesso profondo, restituendo i profili di migliaia di personaggi che nella loro vita hanno svolto funzioni diverse, tutte incentrate sul dominio di una cultura tecnica necessaria a ridisegnare i rapporti fra gli uomini e gli schemi di dominazione correnti. Per questo i curatori dell’opera hanno proposto due importanti correttivi alla storia classica del diritto. Da un lato la definizione di giurista viene ampliata per accogliere personaggi che non provenivano espressamente dal mondo del diritto, ma hanno avuto un’influenza rilevante sul pensiero giuridico; dall’altro, si riformula il concetto di “opera”, che, accanto ai testi dottrinali ricomprenda sia l’attività politica, sia quella divulgativa e di mediazione culturale, tutte funzioni essenziali per la riproduzione del ceto.
Emerge, così, un volto nuovo dei giuristi medievali, impegnati certo nell’insegnamento, ma ben inseriti nei gangli vitali dei governi comunali. Un’implicazione diretta, che riguardava sia professori famosi, come Accursio e i suoi figli (forse corrotti, ma al servizio ben remunerato dei re europei), sia i numerosi doctores non professori, impiegati spesso come ambasciatori e avvocati in mediazioni giuridiche e politiche di alto profilo. La capacità di definire le questioni, qualificare le azioni e trovare delle soluzioni che ricostituissero una legittimità del quadro politico, rendeva prezioso il loro servizio a tutti i poteri territoriali presenti nella penisola italiana. Dal Trecento, questa funzione consultiva tanto privata (consilia nei processi) quanto pubblica (consigli di governo) – aumenta in modo esponenziale, anche grazie al maggiore controllo esercitato dai poteri pubblici sulle università locali, come Padova, Pisa, o Pavia, creata ex novo dai Visconti. I grandi giuristi del XIV e XV secolo furono necessariamente professori e consulenti allo stesso tempo, grati per la protezione ricevuta ma anche dialettici con i poteri che la offrivano in maniera così interessata (si vedano le vite dei maggiori, come Dino del Mugello, Ranieri Arsendi, Alberico da Rosciate, Bartolo di Sassoferrato e Baldo degli Ubaldi).
Una dipendenza relativa, che contraddistinse anche le grandi personalità del Cinque e del Seicento, quando l’aspetto pratico della professione si dimostrò a tratti prevalente. Tutti i grandi giuristi dell’età moderna furono anche grand commis degli stati italiani: da Giulio Claro ‒ proveniente da una famiglia di alti funzionari della Lombardia spagnola, che dall’esperienza di pretore a Cremona ha tratto molti dati utili al suo famoso trattato criminale ‒ a Tiberio Deciani, ascoltatissimo consultore per i privati, al servizio di Venezia come consigliere e avvocato; al delinquenziale Prospero Farinacci, più volte processato e arrestato, ma protetto da una cordata potente di cardinali romani. Sono biografie esemplari di una vita professionale composita, segnata da un continuo trasferimento di esperienze dalla sfera privata a quella pubblica, da quella scientifica a quella avvocatesca. Un tratto comune all’insieme di figure minori che popolano i secoli successivi fino all’unità d’Italia.
Una rottura di sistema si pone infatti al passaggio fra Otto e Novecento. il posto preponderante occupato nel Dizionario dai giuristi del XX secolo (1207 voci, pari al 56,9% del totale) è dovuto in parte alla diffusione di un sistema di università statali, che moltiplicò in qualche decennio le cattedre di diritto e di conseguenza i “giuristi” professionali, ma in misura ancora maggiore alla domanda pubblica di funzionari e di esperti legislatori. La coesistenza di incarichi tecnici e di insegnamento, di attività forense e di mandati parlamentari segna infatti l’intera parabola dei giuristi nel Novecento, anche di quella pletora di figure minori di cui ora il Dizionario permette un esame ragionato e contestualizzato. È la conferma della vocazione pratica dei giuristi, della loro utilità politica nella costruzione dei moderni apparati amministrativi e della centralità di questi apparati nello stato moderno, specie sotto il fascismo.
Naturalmente il capitolo dei rapporti fra giuristi e regime è denso di questioni aperte. Non sempre si riesce a capire, dalle singole biografie, se un dato giurista è diventato fascista o il fascismo ha raccolto un’eredità culturale già indirizzata verso un rafforzamento autoritativo dello stato. È questo il caso dei maggiori penalisti degli anni venti, come Vincenzo Manzini e Alfredo Rocco, ma anche di alcuni giuspubblicisti, che mostrarono una tendenza precoce alla giustificazione dello stato fascista e corporativo. Eppure, a parte alcune figure molto compromesse col regime (fra gli altri Giuseppe De Francesco, Emilio Betti, Pietro De Francisci) i maggiori giuristi si mantennero in una posizione di equilibrio tra ricerca teorica e adesione al regime; un’ambivalenza che permise a molti di loro di attraversare il passaggio allo stato repubblicano conservando una relativa coerenza dottrinale con gli indirizzi precedenti (esemplare la parabola di Costantino Mortati). Esito non secondario di una secolare tendenza all’autonomia scientifica ben viva pur all’interno di un’inevitabile dipendenza politica e professionale dai poteri costituiti.
Massimo Vallerani