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È un saggio che innesca, spingendosi oltre, le dinamiche che di solito scandiscono la lettura di un romanzo. Nel libro di Kaufmann non c'è solo empatia, totale o parziale identificazione con la figura femminile di cui si raccontano le vicende. C'è molto di più: c'è autobiografia, la mia autobiografia. C'è la consapevolezza che quella è anche la mia storia, che in quella prosa è racchiusa una parte importante della mia vita e ammetterlo ha richiesto talvolta non poco coraggio. Leggere Kaufmann è stato come riprendere in mano un vecchio album di fotografie, come rileggere un diario minuziosamente vergato dei ricordi dei miei ultimi trenta anni. Questo libro mi ha parlato, mi ha fatto rivivere sensazioni e provare quei sentimenti che per tanto tempo, in particolare quando li vivevo, non sempre sapevo spiegarmi. Con mestiere Kaufmann individua quel "dito accusatore", quel maledetto dito che ci condiziona tutte, che mi ha condizionato. Lo sguardo inquisitore degli altri e delle altre che ti fa sentire strana, pericolosa, da evitare e che ti rovina tutto il piacere e la gioia di essere libera. Sì, perché la solitudine non è fatta soltanto di lacrime di cui sarebbe inutile e disonesto negare la loro più o meno regolare quanto spiacevole visita, ma anche di libertà, del piacere dei piccoli piaceri, dell'orgoglio di non scendere a patti e di non doversi abbassare a umilianti baratti? Perché c'è sempre un principe azzurro che ci aspetta. Anche la mia generazione, quella di donne che hanno studiato, viaggiato, donne che hanno avuto gli strumenti necessari per guardare la vita con un certo distacco e anche con un certo cinismo, donne che si sono affrancate da tante restrizioni, da tanti pregiudizi ci ha creduto. E continua a crederci. Ho e abbiamo decostruito tanti miti ma, che lo si voglia ammettere oppure no, quello del "Principe azzurro" resta in piedi, più forte che mai e continua a far danno. Perché ne abbiamo bisogno.
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