Immanuel Kant fu un filosofo tedesco tra i più influenti dell’età moderna. La sua opera inaugurale di rilievo, Storia universale della natura e teoria del cielo (1755), anticipò con sorprendente lucidità l’ipotesi della formazione dell’universo da una nebulosa in rotazione, offrendo un’intuizione pionieristica sulla genesi cosmica.
Nel campo dell’etica, Kant elaborò un rigoroso sistema morale fondato sulla centralità della ragione. Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e nella Critica della ragion pratica (1788), attribuì alla ragione un ruolo sovrano nella determinazione del dovere morale, introducendo il celebre imperativo categorico come fondamento universale dell’agire etico.
La sua terza grande opera, Critica del giudizio (1790), rappresenta un punto di snodo fondamentale tra estetica settecentesca e sensibilità romantica. In essa, Kant si confronta con il problema di conciliare i due ambiti apparentemente inconciliabili della natura e della libertà morale, individuando nella facoltà del giudizio — in particolare nel giudizio riflettente — lo strumento attraverso cui l’esperienza estetica rivela una profonda sintonia tra mondo e soggetto. Il piacere estetico, scrive Kant, nasce quando un oggetto della natura o dell’arte suscita in noi una risonanza interiore disinteressata, non legata né alla conoscenza né all’utilità.
Accanto al bello, che implica equilibrio e armonia, Kant introduce la nozione di sublime: esperienza che si manifesta di fronte a ciò che appare smisurato, imponente, travolgente. Inizialmente ci sentiamo sopraffatti dalla nostra piccolezza, ma proprio da questa sproporzione sorge un secondo moto dell’animo, in cui l’uomo si riscopre capace, in quanto essere morale, di elevarsi sopra la natura e affermare la propria dignità trascendente.
La visione kantiana dell’estetica, fondata su una trattazione unitaria e analogica di arte e natura, influenzò profondamente Goethe, Schiller e molti pensatori del Romanticismo, lasciando un’impronta indelebile sulla filosofia dell’Ottocento.