(New York 1843 - Londra 1916) scrittore statunitense.Il «virus europeo» Figlio del pensatore religioso Henry, seguace di Swedenborg, e fratello del filosofo William, visse fin da bambino in un’atmosfera culturale fervida di stimoli. Seguendo la famiglia nei numerosi viaggi oltreoceano, fu contagiato, già in tenerissima età, da quel «virus europeo», come egli stesso lo definì, che rappresentò la scintilla iniziale del suo interesse per il vecchio continente. I suoi studi furono intermittenti: dopo aver frequentato scuole europee a Ginevra, a Parigi, a Bonn, al ritorno negli Stati Uniti, nel 1862, si iscrisse alla facoltà di legge dell’università di Harvard per un solo anno; nel 1869 ripartì per l’Europa, che affrontò con una consapevolezza nuova: da questa esperienza, e da quella successiva del 1872-74, derivò i materiali della prima raccolta di racconti, Un pellegrino appassionato e altri racconti (A passionate pilgrim and other tales, 1875), e di Schizzi transatlantici (Transatlantic sketches, 1875), appunti di viaggio che documentano la profondità con cui l’immagine dell’Europa si impresse nella mente del giovane americano. Dopo una lunga permanenza a Parigi, che gli consentì di incontrare Flaubert, Maupassant, Zola e Turgenev, si trasferì a Londra, dove visse quasi ininterrottamente fino al 1896, alternando ai lunghi soggiorni europei brevissimi ritorni in patria.Il «tema internazionale» e i suoi percorsi interiori La prima fase della sua carriera, a partire dalla pubblicazione del romanzo Roderick Hudson (1876), si incentra sul rapporto Europa-America: un conflitto culturale tra opposti, che la critica ha generalmente identificato in rozza semplicità e innocenza americana, da un lato, in raffinatezza e corruzione europea, dall’altro. In realtà, nei successivi romanzi, L’americano (The american, 1877) e Gli europei (The europeans, 1878), J. esplora la contrapposizione tra le due culture in profondità, senza privilegiare l’una o l’altra, ma quasi ipotizzando una fusione dei costumi e dei valori morali delle due tradizioni nella figura di un potenziale americano europeizzato. Ma già in Daisy Miller (1879), romanzo breve di grande popolarità, e in Ritratto di signora (Portrait of a lady, 1879), capolavoro di questo primo periodo, il cosiddetto «tema internazionale», invenzione jamesiana, comincia ad assumere toni ambigui e risvolti inquietanti: l’iniziazione al continente europeo può concludersi in un destino di morte, come accade a Daisy Miller, o imprigionare inesorabilmente una coscienza, come quella di Isabel Archer, la «signora» del Ritratto, prigioniera della sua stessa consapevolezza, acquisita faticosamente attraverso angosciosi percorsi interiori. Nella seconda fase della carriera di J. si collocano i romanzi brevi Il carteggio Aspern (The Aspern papers, 1888), in cui la letteratura diventa sottile oggetto di narrazione, Il riflettore (The reverberator, 1888), Una vita londinese (A London life, 1888) e i più voluminosi I bostoniani (The bostonians, 1886), lucido e ironico resoconto sui problemi del nascente femminismo, e La principessa Casamassima (The princess Casamassima, 1886), in cui J. affronta la tematica dell’anarchismo, con un’acutezza che smentisce le accuse, spesso rivoltegli, di indifferenza ai problemi sociali. Tra il 1890 e il 1895 J. tentò l’esperienza, a lungo meditata, del teatro: che si tramutò, con la rappresentazione del Guy Domville, in un drammatico insuccesso, non potendo la densità introspettiva della sua scrittura adattarsi ai ritmi dell’azione teatrale.Lo sperimentalismo jamesiano La riflessione sui metodi scenici lasciò tracce profonde nelle opere narrative che seguirono, accentuandone il carattere sperimentale. Nei romanzi Le spoglie di Poynton (The spoils of Poynton, 1897), Ciò che sapeva Maisie (What Maisie knew, 1897), L’età ingrata (The ackward age, 1899), La fonte sacra (The sacred fount, 1901) J. raffinò la tecnica del «punto di vista» (ossia precisò il ruolo di un narratore interno alla vicenda, dalla cui limitata visuale vengono presentati i fatti) e della progressione «scenica» delle sequenze narrative. Questi nuovi metodi garantivano, da un lato, l’impersonalità del giudizio, dall’altro aprivano le porte al mistero e all’ambiguità, tipici di tanta letteratura moderna, come nel romanzo breve Il giro di vite (The turn of the screw, 1898) o nell’emblematico racconto La figura nel tappeto (The figure in the carpet, 1896). Coinvolgendo in questa visione relativistica le potenzialità stesse dello strumento narrativo, e mettendo in discussione l’opera d’arte e i suoi principi compositivi, J. anticipava i procedimenti metaletterari del romanzo del Novecento.Gli ultimi grandi romanzi Alla terza fase della sua produzione appartengono i tre imponenti romanzi Le ali della colomba (The wings of the dove, 1902), Gli ambasciatori (The ambassadors, 1903), La coppa d’oro (The golden bowl, 1904), in cui, rielaborando il «tema internazionale», J. delinea vicende evanescenti e complesse che lo trascendono: quasi favole morali di suprema tensione simbolica. La stessa sottigliezza stilistica, la stessa scrittura tesa a riprodurre le fluttuazioni della coscienza e le sfaccettature di una realtà frantumata, caratterizzano i due romanzi incompiuti La torre d’avorio (The ivory tower) e Il senso del passato (The sense of the past), apparsi postumi nel 1917, come postume apparvero le riflessioni critiche raccolte in L’arte del romanzo (The art of the novel, 1917). Nel 1904 J. ritornò in America dopo molti anni di assenza: La scena americana (The american scene, 1907), il libro-reportage nato da quella riscoperta, segnò il suo distacco definitivo da un paese in cui non si riconosceva più. Lasciati gli Stati Uniti nel 1911, assunse la cittadinanza inglese nel 1915, poco prima della morte. Incompiuta rimase anche la sua Autobiografia (edita nel 1956 da F.W. Dupee col titolo Henry James: Autobiography), che cercava di chiarire, anche se solo in superficie, il mistero di una vita interamente consacrata all’arte.