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"D'accordo, d'accordo, è perché siamo il popolo eletto! Ma senti! Ogni tanto non potresti eleggere qualcun altro e lasciarci un po' in pace?"
da: Sholem Aleikhem - Tevjie il lattivendolo
Avete mai visto uno spettacolo teatrale di Moni Ovadia? È travolgente, coinvolgente, affascinante. E così sono i suoi libri. Non è importante essere ebrei o conoscere la religione ebraica: Ovadia spiega i concetti fondamentali mano a mano che procede nel suo vasto discorso. E si impara moltissimo senza quasi accorgersene. Soprattutto, si impara che l'ebreo ride e che sa ridere specialmente di se stesso. Ride dei suoi difetti, delle sue disgrazie, ma anche delle sue fortune. E ride delle risate altrui, dei luoghi comuni che lo accompagnano da sempre, che lo hanno spesso tramutato in un personaggio grottesco. L'umorismo ebraico pervade le pagine di questo volumetto (leggero ma "intenso") e le immagini della videocassetta allegata, in cui è stata selezionata una panoramica di storielle raccontate da Ovadia in alcuni spettacoli teatrali, che si dipanano attorno a una traccia comica (anche quando il tema trattato è tragico) realizzando così l'essenza del dramma nella sua massima valenza teatrale. La risata ebraica ha radici antiche, addirittura bibliche, da Abramo e Sara che ridono dell'idea di avere un figlio alla loro veneranda età, a Dio stesso, che crea la terra dopo ventisette tentativi falliti e contemplandola dice "Speriamo che tenga!". Il ridere è un atto salvifico. "L'ebreo forse in cuor suo agogna, quando verrà il suo momento, di ridere con Dio di tutta questa straordinaria follia". E non potrebbe essere altrimenti. L'unica salvezza per un popolo così martoriato nei secoli è il riso. Il valore, la bellezza del volume sta non solo nella riproduzione di un numero notevole di racconti sapienziali talmudici e di storielle ebraiche autoironiche, ma anche nell'approfondimento delle radici storiche di questa ironia. E, parallelamente, nell'analisi del valore della parola e della lingua yiddish, strumento unico di comunicazione tra coloro che la utilizzano. Una lingua eccezionale, che "assomiglia" alle tante lingue che l'hanno generata (in particolare al tedesco) ma in cui la parola assume un tale valore autonomo, un tale peso, una tale quantità di significati da divenire fondamento della comunicazione e al contempo strumento comprensibile solo per chi l'ha utilizzata da sempre. Citando brani e pensieri dei massimi autori yiddish, Ovadia ricostruisce anche un clima, una condizione di vita che è quella degli ebrei dell'Est, rifugiati in paesi che per secoli li hanno accettati e amati come fratelli, ma che hanno saputo anche odiarli come i peggiori nemici. Del resto da sempre l'ebreo sa che non può fare affidamento che su se stesso e sul suo popolo. Il quartiere o la cittadina ebrea dell'Est (lo shtetl) è composto da case "stratificate" addossate le une alle altre in modo inverosimile: solo il muro ben vicino di un altro ebreo potrà fungere da protezione contro l'esterno. E in questo contesto cresce e si sviluppa una nuova letteratura i cui massimi esponenti sono Sholem Aleikhem, Mendel Moikher Sfoyrim, per arrivare fino a Franz Kafka, a Bruno Schulz o al Premio Nobel Bashevis Singer. Alcuni di loro scrivono in yiddish, altri no, ma tutti sono stati in grado di trasmettere le emozioni, le sensazioni vissute nello shtetl, che Ovadia ritrasmette attraverso la sua critica e la storia che traccia. La storia di un popolo che sa ridere, che ride di tutti, dall'ultimo mendicante al più anziano e venerabile rabbino e arriva addirittura a ridere del proprio Dio. Per mantenere le proprie certezze, per sopravvivere, per andare incontro al futuro.
A cura di Wuz.it
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