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Buona idea di partenza: la comprensione di qualcosa comporta la sua negazione, l'oggetto è parte di un perenne divenire, quindi andrà a morire/sparire; questo avviene attraverso il dissenso verso l'oggetto/idea consolidato/a ed il noto processo tesi-antitesi-sintesi. Il saggio vuole applicare tutto ciò all'Economia politica. A parte questa valida idea iniziale, il resto è imbelle. All'inizio afferma che l'Econ.Pol è liberista e viene dalla Riv.Industriale, e che la sua negazione è l'Econ.Pol del proletariato (lotta di classe, polarizzazione ricchi-poveri). Scopiazza banalmente Marx, ripetendone anche l'errore di base, perché non considera l'enorme classe media che l'industrializzazione ha generato. Da qui in poi il tema Econ.Pol è trattato quasi marginalmente: parte da lontanissimo (a volte non ho nemmeno capito i nessi), scrive pieno di latinismi, corsivi e citazioni, sincopato (capitoli di 1-2 pag), divagante (Marx, ricchezza povertà, S.Francesco, Boccaccio). Il rapporto di lavoro contemporaneo è assimilato a quello padrone-servo dell'antichità, mentre la visione del mondo del lavoro e della vita dei salariati è ripresa dalle descrizioni della Londra di fine '700 ed applicata come se da allora nulla si fosse modificato. Alcune affermazioni poi sono veramente bizzarre: autori del '500 per trattare il concetto (di molto posteriore) di homo oeconomicus; Hegel tra coloro che hanno scritto contro la formazione dello Stato, e contestualizza il pensiero del filosofo nella realtà dell'autore del 1986; identifica l'econ precapitalistica con quella della povertà e del vagabondaggio (?!); parla di pauperismo postindustriale con banalità agghiacciante rispetto a DeTocqueville (che ne ha scritto un saggio); scrive dello sciopero in un modo che farebbe venire un'ulcera ad un giuslavorista di sinistra. Chiude affermando che la produzione appartiene ai lavoratori e non può coesistere con il capitale. Una visione come minimo anacronistica.
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