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Nel 1924, all'interno dei due volumi degli Scritti vari di Cuoco curati da Nino Cortese e Fausto Nicolini, erano state pubblicate 123 lettere. Grazie alla presente edizione, contenente il solo epistolario, le lettere sono diventate 225. E si tenga conto che molte missive sono state a suo tempo distrutte, insieme ad altri scritti verosimilmente incompiuti, dallo stesso Cuoco, nato nel 1770 a Civitacampomarano e morto a Napoli nel 1823. La distruzione delle carte avvenne dopo il 1816, quando il prudente rivoluzionario e patriota, molisano di nascita, e per molti versi europeo non meno che napoletano, fu vittima di una gravissima forma di follia: non credo (com'è stato più volte sostenuto) a causa dell'avvento della Restaurazione borbonica. In virtù del meritorio lavoro dei nuovi curatori si è comunque allargata la nostra conoscenza della scrittura e della biografia di Cuoco. Eppure, nelle lettere, resta ancora prevalente la dimensione privata. Lo spirito pubblico appare di tanto in tanto e quasi sempre, con la necessaria cautela, va cercato, spesso senza essere trovato, tra le righe. Cuoco, su pressione del padre, avrebbe del resto dovuto studiare, e studiò, giurisprudenza. Crebbe inoltre intellettualmente nel grande clima dell'Illuminismo meridionale, alla scuola soprattutto di Genovesi e di Pagano, ma si interessò con passione, tuttavia, alla teoria politica e alla filosofia (Machiavelli e Vico), nonché alla cultura del mondo classico e in particolare a quella, allora mitizzata e in realtà non molto nota, dell'"Italia pitagorica" e della Magna Grecia.
E in effetti, nel 1790, il visitatore generale delle province Giuseppe Maria Galanti ebbe a scrivere da Napoli al padre di Vincenzo, Michelangelo Cuoco, avvocato e studioso di economia, che il figlio non scriveva lettere alla famiglia, ma stava in salute ed era un "giovane capace di molta abilità e di molto talento", anche se "molto trascurato ed indolente e poco attivo", della qual cosa Galanti si dichiarava "afflittissimo". In realtà Vincenzo ebbe poi a scrivere alcune, poche, lettere alla famiglia. Abbiamo però praticamente nulla, nell'epistolario, sul periodo più importante, e più noto ai posteri, della sua vita. Vincenzo fu infatti artefice vigoroso, e lodato, della rivoluzione partenopea, pur contrastando i metodi dei rivoluzionari. Arrestato nel giugno 1799, fu tenuto in carcere per dieci mesi, sino a quando, nell'aprile 1800, fu esiliato. I beni gli vennero confiscati. Non sono rimaste lettere di questo periodo. E ben poche anche del periodo successivo, allorché Vincenzo riparò a Parigi e poi a Milano, dove nel 1801 pubblicò, anonimo, lo straordinario Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, testo scritto mentre si trovava ancora in Francia.
È qui che vengono criticate l'astrattezza francesizzante del moto repubblicano e l'indifferenza per i bisogni del popolo, inevitabilmente avvinghiato più alle condizioni materiali che alle idee importate dalla Francia. Per Cuoco la rivoluzione, "essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo". Frase celeberrima, questa. E concetto formidabile quello di "rivoluzione passiva", fatto proprio, ma con altri intenti, da Gramsci. Per il comunista sardo il Risorgimento era stato infatti una rivoluzione passiva perché la borghesia non aveva mobilitato il popolo, mentre per Cuoco la passività era derivata dalla volontà di applicare a Napoli i principi maturati in un contesto diverso come quello francese. Se Gramsci avesse voluto acquisire veramente il concetto di Cuoco, avrebbe dovuto sostenere, ma non si può pretendere tanto, che la rivoluzione proletaria italiana del Novecento non avrebbe dovuto comportare la russificazione-bolscevizzazione.
È comunque nelle lettere del periodo milanese (1801-1806) che occorre frugare tra le righe per far baluginare, senza certezze, qualche aspetto del pensiero del formidabile scrittore del Saggio. Le lettere, d'altra parte, venivano "lette", cioè controllate, e talvolta non recapitate. Questo scrisse Vincenzo da Milano al fratello Michele Antonio nel gennaio 1803. E ribadì la stessa cosa ancora nell'aprile 1806, alla vigilia del ritorno a Napoli. Vincenzo non voleva dunque cadere preda della censura, ed è anche per questo che la dimensione privata, importante sul terreno biografico, restò dominante anche nel periodo ormai napoleonico, quando i francesi, tra consolato e impero, avevano riconquistato l'egemonia sugli spazi italiani. Furono però questi gli anni della stesura del Platone in Italia, pubblicato al rientro a Napoli nel 1806, un'opera sgorgata dalla vichiana "antiquissima italorum sapientia" e anticipatrice del "primato" di Gioberti. Cuoco aveva ormai compiuto, davanti allo stesso dominio francese-imperiale, il passaggio al pieno patriottismo. Il Platone in Italia fu del resto un romanzo epistolare. Ed è qui che sotterraneamente poté emergere la rivincita della lettera come espressione dello spirito pubblico.
Bruno Bongiovanni
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