Nel 1961, il premio Nobel per la letteratura William Golding iniziò un esperimento didattico nella quarta elementare in cui insegnava. Divise la classe in due gruppi facendoli dibattere intorno a una questione. Un giorno, Golding pensò di andare oltre: uscì dall'aula e nella campagna di Salisbury diede ai suoi ragazzi piena libertà d'azione. Dovette intervenire poco dopo e farli rientrare a forza per evitare il peggio. Da questo episodio scaturì il suo primo e più importante romanzo, Il signore delle mosche, in cui un gruppo di bambini sperduti su un'isola e senza guida tenta di autogestirsi secondo regole democratiche, prima di assaggiare il disastro dell'istinto alla sopraffazione. Anche in Eravamo bambini abbastanza, l'ultimo romanzo di Carola Susani, otto bambini si trovano a dover imparare la sopravvivenza tra leggi non scritte e dinamiche sociali eterodosse. Ma a differenza di ciò che accade nel Signore delle mosche, a guidarli c'è il Raptor: l'uomo che li ha rapiti. Dall'estremo oriente europeo, città dopo città, nazione dopo nazione, questo uomo nero toglie alle loro famiglie Leonid, Tania, Catardzina, Alex, Ana, Dragan, Filip e infine Manuel, la voce narrante, guidandoli fino a Roma. Anche il lettore viene rapito, perché la narrazione, che parte dal ratto di Manuel nel parcheggio di un supermercato in una città del Nordest italiano, lascia sospese tutte le spiegazioni obbligando a vagolare nel buio, come sequestrati. Le domande di ogni bambino: dove stiano andando, perché, e soprattutto chi è veramente il Raptor, diventano le nostre. Ma la tensione dell'imminenza funesta che agita la prima parte del libro lentamente lascia il posto a qualcos'altro: con un sapiente lavoro di mimesis, Susani ribalta dall'interno una facile cronaca della scomparsa, costruendo un romanzo che è insieme di viaggio e di formazione. Tra le periferie di un'Italia postindustriale, ma con grandi spazi rurali, l'autrice si cala al grado di bambini che non devono necessariamente avere la cognizione del mondo moderno per sapere come vivere, si immerge in un'infanzia che è dura senza per questo essere priva di sogno, anche se non convenzionale. Nel loro viaggio, questi bambini abbastanza imparano a compiere furti e scorribande, arrangiandosi per portare a termine le loro piccole missioni che diventano grandi perché sono la leva della loro sopravvivenza, individuale e sociale. Chi sbaglia non viene punito, è uno degli altri sette a esserlo. Perfino il Raptor non è esente. E se il codice appare spietato, in un mondo spietato è garanzia di salvezza, catalizzatore della coesione di un gruppo dove non mancano dissidi, litigate e scazzottate, ma dove il legame diventa più forte di qualsiasi altra cosa. La famiglia di origine diventa allora un luogo opaco e unidimensionale, vissuto come un sonno, una cattività alla quale ritorneranno solo dopo un finale potente e drammatico, e sicuramente cambiati: "La vita vera era quella, la nostra con il Raptor, e questa la scuola, i genitori, i regali di compleanno, la piscina è come un giro in giostra, un esercizio finto che non allena a niente". Già, perché il Raptor, il William Golding educatore di una favola nera e postmoderna, è enigma e simbolo: un mangiafuoco silenzioso e duro, ma anche una guida in grado di trasmettere una pace profonda quando appoggia la mano sulla testa o la spalla di uno dei suoi bambini. Un mentore che passo dopo passo dona loro una via non solo geografica, ma anche teoretica, dentro l'essere umano e la socialità, senza proteggerli dal mondo con illusioni pedagogiche che li avrebbero probabilmente indotti a una noiosa e soffocante cecità. Raffaele Riba
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