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recensioni di Leoni, F. L'Indice del 2000, n. 02
Non è necessario, per essere umanisti, essere retorici e adulatori dell'umanità. Lo ha scritto una volta Thomas Mann, in una frase che si incontra in esergo a L'esistenza ferita, tra molte altre riflessioni di poeti, pensatori, romanzieri con cui Sergio Moravia accompagna il percorso di questo suo ultimo libro. Testimonianze di un impegno teorico che da molto tempo va interrogando lo statuto teorico dell'antropologia, della psicologia, delle scienze umane in genere, rompendosi i denti senza sosta, come Adorno diceva, nel mordere il nocciolo del suo tema d'elezione: l'uomo.
Animale dalla natura polimorfa, oggetto di saperi di cui è, insieme, soggetto, l'uomo è posto in luce e indagato, nelle pagine dell'Esistenza ferita, con la consapevolezza che nessuna prospettiva potrà esprimerne ogni sfumatura, ogni iridescenza e ombra. Non la storia dell'antropologia medica del settecento, che in questo volume, in cui sono raccolti organicamente saggi già pubblicati in altre sedi, fa da sfondo genealogico al dibattito contemporaneo (tre ampi capitoli sono dedicati rispettivamente ai medici-filosofi dell'Illuminismo francese, Pierre Cabanis sopra tutti, alla psichiatria filantropica di Philippe Pinel e al dibattito tra Pinel e Jean Itard sul caso del ragazzo selvaggio dell'Aveyron). Non la critica della mind philosophy americana, svolta tra l'altro in una riflessione su Il soggetto della mente e il mentale come linguaggio del soggetto in cui convergono molti dei motivi che sorreggono il pluralismo epistemologico di Moravia in direzione di una prospettiva unitariamente "personologica". Non la fenomenologia, infine, né la riflessione psicologico-morale, che danno vita, insieme, ad analisi che spaziano dalla natura del male al senso della sofferenza umana, dall'idea medica e filosofica di terapia e di riabilitazione a quella di salute.
Natura polimorfa, perciò, del discorso che riguarda l'uomo e che ne indaga, in questo volume, le pieghe segrete, scabre, taglienti. E, nel groviglio dell'esistenza, e delle prospettive teoriche che emergono dalla vastissima bibliografia con cui il libro si chiude, Moravia individua il Leitmotiv di una condizione umana segnata da una costitutiva "esposizione sensibile". Esposizione al mondo, cioè, esposizione dei sensi che vi si protendono e ritraggono. Soglia inquieta in cui, sul logos, prevalgono la passione, il pathos, il patire: del corpo, dei sensi, della sensibilità. Esposizione al senso, poi, e alla necessità, scrive Moravia, di cercare e di trovare, fuori, nel mondo, ciò che dentro non c'è. Esposizione a ciò che la vita insegue liberamente nella sorpresa e nel nuovo, e che la sofferenza affoga, invece, nella staticità e nella ripetizione, nel desiderio e nel ritorno dell'uguale.
Perché ciascuna delle figure di vita offesa portate, qui, sulla scena del discorso, rappresenta un modo della illibertà, della costrizione, della prigionia. La follia, stretta fra l'angoscia che le appartiene più nel profondo e le catene delle istituzioni in cui essa fu, insieme, curata e metodicamente coltivata. L'avarizia, chiusa su di sé e intenta a incamerare e a trasformare ossessivamente il proprio mondo in un cumulo di oggetti e di possessi. Il narcisismo, schiacciato dal miraggio di una onnipotenza che si nutre di solitudine. Esposizione sensibile è, per Moravia, la possibilità sempre presente e incombente di queste ferite e lacerazioni, ma possibilità di riparare a quelle ferite. E di ripararvi "non altrove, non in studi medici, montagne incantate, conventi religiosi e laici", ma nell'impegno delle relazioni umane e nella promessa di una felicità allo stesso tempo privata e pubblica, civile e individuale.
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