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recensioni di Forti, S. L'Indice del 2000, n. 12
Grazie soprattutto a piccoli editori - penso a Cronopio, Lanfranchi, Marcos y Marcos, Quodlibet, Il Melangolo - molte delle opere di Jean-Luc Nancy sono state tradotte in italiano. Tuttavia, in Italia esse non hanno ottenuto quella accoglienza favorevole e rumorosa che presso altri paesi hanno incontrato. La recente edizione Einaudi di L'esperienza della libertà contribuirà sicuramente a far circolare l'opera dell'autore francese al di là della ristretta cerchia degli addetti ai lavori.
Penalizzata, forse, dall'eccessivo tratto francese - dalla ridondanza di una scrittura a volte irritante e dal compiacimento per una frammentarietà non sempre d'aiuto alla comprensione -, la riflessione di Jean-Luc Nancy è senza dubbio uno dei non molti esempi di pensiero "in atto". L'orizzonte da cui essa muove è quello della fine della filosofia, della consumazione, cioè, del significato delle categorie portanti dell'epoca moderna. Tuttavia, Nancy non soltanto respinge per sé la vaga e ingenua etichetta di postfilosofo e di postmoderno, ma, potremmo dire, si impegna nell'elaborazione di un'"ontologia del presente" (si vedano a questo proposito i bei saggi Il senso del mondo, Lanfranchi, 1999, e, non ancora tradotto, Être singulier et pluriel, Galilée, 1996). I suoi lavori ci suggeriscono di "sostare presso il negativo" in cui consiste la realtà: riconoscerne le aporie, i double binds e le contraddizioni. Tale attitudine, tuttavia, non deve trasformarsi in un rassegnato ed estetizzante lamento sulla "fine" e sulla mancanza di significato, ma restare vigile e "combattiva" per sfruttare le chances positive che tale presente procura. Come dice Roberto Esposito nel saggio introduttivo - di grande utilità per il lettore italiano -, se per Nancy la filosofia non può più essere una concezione del mondo, può però costituire l'apertura di un pensiero in cui il mondo stesso viene riconosciuto, radicalmente, come l'unico senso. "Al limite della filosofia - scrive Nancy -, là dove ci troviamo, non c'è che la libera disseminazione dell'esistenza". È questa la verità, banale e a un tempo difficile da sottoscrivere fino in fondo, a cui il pensiero di Heidegger ci ha condotto e rispetto alla quale esso è venuto imperdonabilmente meno. Se ciò che oggi rimane della filosofia, se il pensiero, insomma, non può che partire dallo spazio aperto da Heidegger, deve però sforzarsi di andare oltre Heidegger, o meglio, sforzarsi di mantenersi fedele a quelle premesse da egli stesso "tradite". Ecco perché Heidegger - sembra concludere Nancy -, che pure ha riconosciuto la necessità di "liberare la libertà" da una concezione dell'essere come sostanza e come presen-
za, portatrice di una nozione "appropriativa e sostantiva" dell'"essere-libero", non ha pensato fino in fondo la libertà come ritiro, senza residui, dell'essere. Si può infatti parlare di libertà dell'essere se e solo se si ammette che non c'è un essere distinto dall'esistenza di ogni esistente; se, e solo se, si riconosce che l'essere dell'esistenza è proprio quel "niente di essere" che ci tiene in rapporto, che costituisce il rapporto come partizione dell'esistenza. La libertà, pertanto, non va più pensata in antitesi alla comunità (La comunità inoperosa, Cronopio, 1992). "La libertà o è in comune o non è": la libertà non è che il modo d'essere, e come tale in-comune, delle molteplici singolarità. La libertà, insomma, irriducibile alla somma delle libertà formali comunque da difendere e rafforzare, va pensata insieme, sino alla sovrapposizione reciproca, alla condivisione originaria della scena del mondo.
L'ascendenza arendtiana, in questa come in quasi tutte le sue opere, è fortissima. Anche per Nancy, il mondo, così come lo "spazio pubblico" col quale sembra coincidere, non corrisponde ad alcun luogo determinato, ma sta a indicare la condizione di possibilità di una trama infinita di esisten-
ze finite, non ordinabili secondo criteri di identità e di esclusione.
Il lettore che cerca in questo libro un trattato politico sulla libertà che stabilisca definizioni, tracci distinzioni o elabori norme a cui conformare la prassi rimarrà sicuramente deluso. Estremizzando l'eredità di Hannah Arendt, forse troppo poco ammessa dall'autore, Nancy procede a un'ontologizzazione della politica e, ovviamente, a una politicizzazione dell'ontologia. Se egli, come io credo, ha questo obiettivo - una "de-regionalizzazione" della filosofia, la decostruzione della separazione e del rapporto gerarchico tra ontologia, da una parte, e politica ed etica, dall'altra - non può più avere senso per lui, così come per altri pensatori e pensatrici che condividono questo orizzonte filosofico, stabilire principi primi, ordinatori di tutte le regioni del reale, che servano da orientamento alla prassi. Non solo perché questa pratica di deduzione di una "filosofia pratica" da una "filosofia prima" è ormai diventata obsoleta, ma anche e soprattutto perché si è dimostrata e si dimostra deresponsabilizzante. Ripensare e reimpostare alla radice il rapporto essere-ente, è sì un'operazione ontologica, ma è al contempo una mossa politica ed etica, tanto necessaria quanto interminabile. Tuttavia è in questa strenua resistenza nei confronti di una comoda concezione sostantiva, identitaria e appropriativa dell'essere che si situa la libertà del pensiero e, di conseguenza, la sua responsabilità: scegliere per l'esistenza singolare e plurale oppure negarla. In fondo questo è il "primo" spartiacque tra il bene e il male.
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