Da qualche anno, come si sa, la narrativa italiana è affollata da racconti sul mondo del lavoro precario, scritti da autori giovani, spesso esordienti, talvolta sul filo dell'autobiografia, dell'esperienza vissuta e del reportage di denuncia: Il mondo deve sapere di Michela Murgia, Pausa caffè di Giorgio Falco, Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio, Mi spezzo ma non m'impiego e Cordiali saluti di Andrea Bajani, Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati sono solo alcuni dei titoli che formano il corpus di quella che Aldo Nove, in un altro incunabolo del genere (il suo Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese
), definisce una nuova e potente "letteratura del lavoro". Potenti o no, tutti questi testi fanno del lavoro flessibile, del precariato diffuso, dell'incertezza professionale ed esistenziale, della sospensione delle prospettive e dei progetti di vita la loro materia del contenuto; richiamo appetibile per i lettori (e per gli editori) perché consente agganci con la cronaca, sociologismi, identificazioni a basso costo. Proprio l'identità, o meglio la crisi di identità, è del resto il tema profondo di queste narrazioni: il lavoro precario è l'elemento più in vista di un'incertezza generale del vivere che focalizza l'interesse di chi scrive. In un contesto del genere L'estraneo di Tommaso Giagni è un libro uguale e diverso. Uguale, perché anche in questo caso il dramma identitario di un giovane italiano è in piena luce, e perché la dimensione esistenziale ed empirica in cui vive il protagonista sospeso tra uno studio senza prospettive e lavoretti di pura sussistenza ‒ non è meno "flessibile" di quella dei personaggi dei libri precedenti. Ma soprattutto diverso, e diciamo pure più stimolante, perché qui inappartenenza e precarietà sono utilizzate soprattutto come forme, allusive, di una condizione che non è solo sociale o generazionale (anche se è sintomatico che sia un giovanissimo come Giagni a scegliere questo taglio e a farne scelta strutturale e stilistica). Incerta e scissa, nell'Estraneo, è innanzitutto la lingua. A dire io è un ragazzo nato nel centro di Roma, ma allevato da una famiglia di provinciali: madre del Quadraro, padre dell'Agro pontino diventato portiere di un'elegante palazzine borghese nei pressi di Porta Pinciana, fiero di poter iscrivere i figli nelle scuole più prestigiose della capitale, ingenuamente fiducioso di accedere per interposta persona a un ambiente che sembrava precluso. Ma "le attese sono brunite, come l'acqua in cui Goya lasciava stingere il pennello": il giovane narratore, di media cultura liceale, in procinto di iscriversi a un corso di laurea in storia dell'arte, racconta il mondo, o meglio i mondi, in cui si dibatte con un linguaggio che reca il segno delle velleità e delle esclusioni. Una lingua disomogenea, dilaniata da registri opposti (alti e bassi), da diversi tipi di lessico (la conversazione borghese, il paesaggismo aulico, il romanaccio), in generale da una contraddizione accentuata tra stile orale e metaforica letterarietà (quest'ultima presente anche in Elisabeth di Sortino: sintomo forse di una volontà di evasione, nei giovani più promettenti, dalle prigioni del gergo o della lingua media). È questa lingua da "mezzosangue", in ogni caso, a rendere plausibile la psicologia del protagonista e a dare sostanza alla sua disperata ricerca di unità (lui che arriva a sognarsi sdoppiato: un se stesso in sella a un motorino, un altro se stesso al posto del passeggero, rigido e impettito); così come è lo slittamento delle metafore a dare connotati di urgenza al tentativo di ricostruzione interiore che è al centro della trama. Consumatasi l'illusione di integrarsi in un centro che lo ignora o lo rifiuta ("La Roma delle Rovine"), l'estraneo cerca e trova una tana nell'estrema periferia della città, la "Roma di Quaresima", oltre il Grande Raccordo Anulare e oltre la trafila dei suoi precoci fallimenti borghesi; la borgata ("Vengo da qua anche se non ci sono mai stato") diventa l'arena in cui tutto si azzera e tutto può ricominciare, il luogo in cui "tutto è vero" e lo spossessamento simbolico si può forse elaborare (il che significa appunto perdere la speranza, "non resistere più"). La borgata stessa, tuttavia, è meno un paesaggio concreto che una forma, un suggerimento strutturale: tutti gli abitanti del quartiere risultano, nel loro equilibrio interiore, privi di centro. Non ha centro Andrea, il padrone di casa, che in borgata si è sempre tenuto al margine ("Verso le uscite laterali, co' le chiappe verso 'r muro"); non ha centro Claudio, l'amico scoperto in palestra, che "ha qualcosa di Andrea" ma nasconde un segreto più grande; non ha centro Alba, borgatara attratta dalla borghesia, e non ha centro Marianna, ragazza di buona famiglia che frequenta il quartiere per snobismo e voglia di bruciare, come accade alla lettera nella bella invenzione rituale del "sabato del fuoco". Il risultato finale si avvicina più ai risultati di certa poesia la periferia metafisica di Umberto Fiori che ai reportage narrativi degli ultimi anni. Certo, la borgata di Giagni tiene conto di quella di Pasolini e di Siti (citati in epigrafe e omaggiati vistosamente), accanto a quelle di Onofri, Carraro e Camarca. Ma mentre la visione di Pasolini è soprattutto rovesciata per l'autonomia concessa ai personaggi, per la negazione dell'alterità borgatara ("intorno non c'è niente della poesia di Pasolini" quella di Siti viene integrata da una prospettiva differente. Il vecchio professore del Contagio poteva scegliere, in borgata, di decostruirsi, perché il Novecento gli aveva regalato una "piramide di significati" da smantellare; l'estraneo in borgata può autodistruggersi ma non attraversarsi, né cambiare, perché a lui il presente non consente scelte, e il Novecento, ai suoi occhi, è solo stordimento. La storia dell'Estraneo inizia e finisce sul Raccordo: né periferia né centro, ma luogo che "non appartiene". Gianluigi Simonetti
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