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Un'analisi approfondita di grande interesse e di piacevolissima lettura (aspetto raro nella produzione italiana di critica cinematografica !) che sicuramente incontrerà il favore degli appassionati del genere noir. Consigliato senza dubbio.
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Nel 1945, al momento di battezzare la nuova collana di polizieschi che ha ideato per Gallimard, Marcel Duhamel decide di accettare un suggerimento del suo amico Jacques Prévert: si chiamerà "Série noire". L'espressione è presa a prestito dalla cronaca, che l'ha coniata poco prima per una serie di incidenti aerei particolarmente spettacolari. Né Duhamel né Prévert immaginano certo, all'epoca, le risonanze che assumerà in futuro la parola "noir": semplicemente, il colore del buio e della morte sembra allora il più adatto a connotare l'universo prevalentemente notturno del poliziesco hard boiled.
Sulle origini, e le successive vicissitudini, dell'etichetta "noir" Renato Venturelli fa il punto con grande chiarezza nell'introduzione al suo volume: non si può che essergliene grati nel contesto attuale, in cui il termine, ormai inflazionato, è spesso usato senza alcuna consapevolezza del suo retroterra storico. È nella Francia di metà anni quaranta, dunque, che si comincia a parlare di "film noir" per definire "quel cinema americano imperniato su vicende criminali che arrivava nelle sale parigine dopo la lunga sospensione della guerra e colpiva per il suo tono estremamente cupo e pessimista, spostando l'attenzione dello spettatore dalla meccanicità del mistery tradizionale alla psicologia tortuosa dei personaggi". Come il jazz che furoreggia nelle caves di Saint-Germain-des-Prés e i romanzi tradotti nella "Série noire", quel cinema racconta un'America ben diversa da quella della produzione hollywoodiana più conformista: il suo fascino è un complesso intreccio di elementi realistici e di tratti onirici e visionari, di suggestioni pulp e di allusioni colte, di innovazioni stilistiche e di grezza iconografia popolare. Più che un genere, è il risultato di un rimescolamento di generi, di un'ininterrotta contaminazione tra giallo, melodramma e horror, all'insegna dell'eccesso e di un disperato, inconfondibile romanticismo della solitudine e della sconfitta.
Di fronte a un oggetto così multiforme, Venturelli ha scelto la via di un approccio duttile, che non mira a fornire del noir una definizione univoca né ad attribuirgli rigidi confini, ma a coglierne le linee evolutive. Il suo percorso ci conduce così dagli anni quaranta, gli "anni dell'incubo", in cui l'interiorizzazione della vicenda criminale finisce "per alludere in fondo al cinema stesso come viaggio nelle zone più oscure dell'io", al periodo del dopoguerra, segnato dallo stile semidocumentaristico e dalla figura del reduce che vaga smarrito in un mondo ostile e irriconoscibile; dai primi anni cinquanta, in cui l'attenzione si sposta sull'attività quotidiana e sui metodi di lavoro della polizia, alla successiva deriva flamboyante che, tra irruzione del technicolor ed esasperazione visionaria dell'aspetto melodrammatico, porterà alla "deflagrazione" del genere.
Ricco di analisi di grande rigore, fondato su una bibliografia critica esauriente, attento agli aspetti stilistici, tecnici e produttivi non meno che a quelli tematici, L'età del noir è un prezioso strumento di consultazione; ma la struttura agile e il taglio narrativo avvincente lo rendono anche una piacevolissima lettura. Mariolina Bertini
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