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C'è almeno un saggio, tra quelli raccolti, ordinati e minutamente ribattuti da Mario Lavagetto in questo volume, che avrebbe potuto firmare il suo maestro Giacomo Debenedetti. Il saggio, Proust e Freud nel 1923, che non teme di far incontrare fin dal titolo i numi tutelari del nostro saggista principe, racconta un caso straordinario, tale sia nel senso del genere letterario ai casi straordinari addetto e più volte evocato nel corso del libro, sia perché un punto fermo della teoria che Lavagetto, mentre la delinea, evita elegantemente di professare, è proprio la negazione di "ogni possibile predittività" da parte della critica. Ed è una predizione critica in piena regola quella di Jacques Rivière, che, dieci anni prima del '23, ha quasi divinato l'apparizione della Recherche, salvo poi procrastinare romanzescamente la rivendicazione della sua scoperta a quando la psicoanalisi non gli ha consentito di esorcizzare il fantasma corrispondente.
Il nostro Giacomino si sarebbe deliziato a restituire rilievo e prestigio al direttore della "Nouvelle Revue Fran&çaise", intrecciando e giocando al tavolo delle coincidenze lacerti epistolari e passaggi penetranti di un'argomentazione tanto datata da cogliere in flagrante la rivoluzione artistica novecentesca e da arrivare in anticipo all'appuntamento con Proust: una montagna ancora invisibile, e anzi "un mucchio di frantumi (...) che sono i materiali di un'ampia e magnifica costruzione", oltre l'orizzonte simbolista. Ci voleva talento per intuire quale scenario stesse per spalancare il soffio potente che, in quello stesso 1913 di Du côté de chez Swann, spingeva al largo Les Demoiselles d'Avignon di Picasso e Le Sacre du printemps di Stravinskij. E ce n'è voluto altrettanto per capire come solo nel '23, potendo finalmente adoperare Freud e Proust quasi l'uno contro l'altro, Rivière escogitasse lo stratagemma per convivere con la rivelazione schiacciante della propria inferiorità, che non commisurava forse sul terreno delle ambizioni creative, ma sperimentava come un limite costituzionale della critica, incapace di prescindere dall'orizzonte della finzione e dal linguaggio del romanzo e, a pena di perdere un'autorità ermeneutica fondata su finzioni e romanzi, negata a una conoscenza non meramente postuma e giustificativa, cioè proprio alla predizione.
Ci piacerebbe accettare la sfida di Lavagetto e sfoderare la botta segreta del moraviano Uomo che guarda, per ipotizzare che forse, in quegli stessi anni, sulle monumentali rovine proustiane, gettava la propria ombra un altro immane disastro che occupava tutto il campo visivo di Rivière. Lavagetto non è però Debenedetti e, persino in una raccolta di saggi, è ispirato da un'ansia di organicità e coerenza irriducibile alle singole occasioni. Perciò i nuclei tematici di Lavorare con piccoli indizi rivisitano senza indulgenze autocelebrative i grandi libri del critico e riconducono quasi a un'unità superiore i suoi studi su Freud, sul melodramma, su Svevo, su Balzac, sulla menzogna letteraria e appunto su Debenedetti.
L'unità è ovviamente quella annunciata dal titolo. Si farebbe torto alla pienezza del controllo esercitato da Lavagetto sulle moderne teorie della letteratura, se la predizione interdetta fosse intesa come una scolastica applicazione del paradigma popperiano o dei suoi antefatti ottocenteschi e riguardasse la critica in quanto discorso non falsificabile. Il "metodo regressivo ", o ragionamento "a ritroso", che per l'autore, sulla scorta di Kant e Freud, oltre che secondo il modello di Sherlock Holmes, sarebbe specifico della critica, corrisponde a una "profezia retrospettiva", ma non si oppone specularmente, come verrebbe da dire, alla previsione. Negandola, la indirizza invece diversamente, trovando più conveniente dare ascolto in questo caso a Poe e adottare il punto di vista integralmente razionale della congettura, anziché quello fattuale della spiegazione. All'incrocio tra i due si colloca l'esperimento compiuto dallo stesso Poe (e opportunamente commentato da Lavagetto), quando tentò di fornire in anticipo la conclusione di un romanzo a enigma che Charles Dickens stava pubblicando a puntate.
Se dunque l'interdizione non riguarda le previsioni, basta dare ascolto a Lavagetto e constatare, anche senza scomodare Saint-Simon, che essa non vige nell'"universo della fiction ", per comprendere che il problema agitato non è la falsificabilità delle ipotesi critiche, ma una pretesa di valere fuori della finzione che non fa altro che estendere la paradossale sproporzione tra gli indizi e la loro efficacia o, più radicalmente, la sproporzione e l'incongruenza delle parole rispetto a ciò che designano. Prima di essere l'ideale prolungamento dell'attività congetturale di quell'"instancabile risolutore di enigmi" che è il lettore di romanzi, i "piccoli indizi" fondano addirittura la comunicazione linguistica.
Lo straordinario caso della predizione letteraria non è isolato dentro al libro, di cui diviene anzi un obiettivo costante, assegnando alla critica una missione nel momento stesso in cui le impone un limite. È in questo spirito che Lavagetto si domanda tra l'altro perché Verdi non abbia scritto il Lear annunciato e Debenedetti preferisse pubblicare solo parzialmente la monografia che mancava al suo curriculum accademico, allo stesso modo in cui ha indagato sulla profezia reticente di Rivière, come lui sapendo e tuttavia non rifiutandosi di "convertire il discorso sulla letteratura nel più generico e improbabile dei discorsi sul mondo".
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