Dopo che la strage di "Charlie Hebdo" ha mobilitato i difensori professionali del libero pensiero, nei nostri giornali e nei salotti tv si è molto parlato e discusso di libertà di stampa. Dovrebbe venirne la garanzia di vite serene al giornalismo di casa, se non fosse che la memoria ci ricorda come, dietro l'ipocrisia ufficiale, sempre l'esercizio del potere abbia conservato ben altra attitudine. Di questa pratica consueta di controllo e condizionamenti, ritrova metodi e vizi il volume d'un giornalista giudiziario che ha avuto un'interessante parabola professionale, non sempre sostenuta da chi doveva dargli fiato e coraggio (Gaino ha cominciato a "il Manifesto", per passare poi a "Stampa Sera" e infine a "La Stampa"); lui, comunque, il coraggio se l'è dato da sé, e le tre storie che il suo lavoro racconta sono esemplari di come in modalità differenti l'informazione possa indossare un bavaglio, perfino senza averne granché di consapevolezza. Le storie dell'Eternit, di Telekom Serbia, e di Stamina, sono state a lungo sulle pagine delle nostre cronache politiche, aprendo lampi di inquietudine su come agisca la macchina che stritola la ricerca della verità attraverso gli ingranaggi della disinformazione e della manipolazione dell'opinione pubblica. Nel caso giudiziario dell'amianto, la ricostruzione di Gaino mette a nudo le operazioni spregiudicate che hanno collegato il potere del business al controllo liofilizzato dell'informazione. Utilizzando documenti riservati, anche inediti, della strategia di Schmidheiny, il lavoro investigativo del cronista denuncia nei fatti come si sia tentato, spesso con successo, di imporre un livello "basso" al flusso delle notizie (un livello cioè emarginato prevalentemente nelle cronache locali) con un rapporto degli imputati con la stampa che opportunisticamente sceglieva, e ci riusciva, tra giornalisti definiti "imparziali" (insomma, quelli facilmente utilizzabili per un indirizzo difensivo della impresa svizzera) e giornalisti invece bollati d'essere "fautori della linea dura". Il complotto di Igor Marini diventa, nella ricostruzione di questo volume, un caso di scuola di come il potere politico possa usare ogni spregiudicatezza per colpire l'avversario, reggendosi sulla possente forza d'urto dell'artiglieria mediatica (qui, le cannoniere di Berlusconi); basato sulla calunnia, ma amplificato dal rilievo che giornali e tv di parte davano a ogni affermazione che potesse rovesciarsi con infamia addosso a "Mortadella" (Prodi), "Cicogna" (Fassino), e "Ranocchio" (Dini), si montava giorno dopo giorno un complotto inverosimile/verosimile nel quale i giornalisti venivano sballottati (o, più spesso, si offrivano consapevoli) in un gioco perverso di dichiarazioni, rivelazioni, denunce, che non aveva alcuna reale consistenza ma lasciava comunque orme ambigue nell'attenzione incerta della opinione pubblica. Il caso "Stamina", infine, complesso e ancora aperto, illustra quanto siano efficaci le pratiche della comunicazione persuasiva, dentro la quale opera il principio, sacrosanto per il sistema mediatico, che l'informazione non può mai rischiare l'impopolarità; e dunque finiscono per ricevere un'attenzione egemone tutte le notizie che si piegano a servirsi delle emozioni più cedevoli e dei buoni sentimenti, anche quando queste notizie non hanno però quella certezza e quella verifica d'identità su cui dovrebbe reggersi la loro offerta al consumo pubblico della conoscenza
Il lavoro di Gaino, pur partendo sempre da formulazioni generali sul ruolo dell'informazione in una società aperta, sceglie però di seguire dal basso la verifica delle limitazioni e dei condizionamenti che pesano sull'esercizio del giornalismo investigativo, oggi più che mai; e si fa un interessante manuale d'uso per lo studio e l'analisi metodologica di questa difficile, e sempre più asfittica, sezione del mestiere giornalistico. M.C.
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