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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 1998
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recensione di Coletti, S., L'Indice 1998, n. 6
Ha scritto Giulio Ferroni su un recente numero di "Liberal" che politici, attori, giornalisti, filosofi, ecc. sempre più spesso, a un certo punto della loro attività, si danno al romanzo e "sembrano cercare" in esso "qualcosa di più essenziale e totale [dei generi di scrittura a essi abituali], al di fuori di quei vincoli professionali, rispetto ai quali provano qualche stanchezza". Non si potrebbe trovare di meglio per introdurre il primo romanzo di un filosofo come Sergio Givone. Ma mentre di solito i romanzi dei non romanzieri cercano di essere, per una ben comprensibile legge di compensazione, "più" romanzi di quelli dei romanzieri in carriera (voglio dire che solo un Kundera o un Calvino hanno potuto permettersi dei romanzi molto saggistici), quello di Givone non nasconde per nulla la sua filiazione dai territori comunicativi della filosofia e anzi la esplicita persino a scapito del-la plausibilità romanzesca; come quando un bambino di tredici anni se ne esce a dire: "Dio è tutti i punti (ecco perché si dice dèi al plurale!) da cui si vedono tutte le cose come sono veramente, si sanno come sono, si sa il bene, si sa il male, e non solo il male per me, e per te, ma il male-male". Lo dichiara, del resto, il titolo: quello di Givone è un apologo sui grandi temi della filosofia moderna, sul nichilismo novecentesco, sul Dio cercato e perduto, sul male dilagante e seducente. La vestizione letteraria di questa problematica (alle cui origini c'è indubbiamente il Dostoevskij dei "Karamazov") è già stata realizzata in Italia ed è nei versi altissimi di Giorgio Caproni dal "Muro della terra" in poi.
Givone ci riprova e l'esito è di tutto rispetto. Va detto subito che il filosofo non scende a troppi compromessi con la sua opzione letteraria e anzi, come abbiamo visto, non di rado ne sacrifica le esigenze a vantaggio dell'argomentazione, addirittura messa vistosamente in esponente nei titoli dei vari capitoli. Givone paga dunque un prezzo alla sua ansia teoretica; ma questa è talmente intensa e vera che nell'immediatezza, nella verosimiglianza della pagina narrativa sta a suo agio. Succede così che, in un libro che racconta la storia di un prete mancato, che rivisita con nostalgia e dolcezza il tempo e le terre dell'infanzia (le campagne vercellesi di quarant'anni fa), che fa posto alla cronaca di oggi (l'assedio di Sarajevo) e di ieri (i miti calcistici della Pro-Patria), si possa leggere un arduo, coinvolgente ripensamento dei rapporti tra Dio e il male (il male c'è perché c'è Dio o Dio c'è perché c'è il male?), tra l'impulso di morte e l'eros, tra il nulla e l'essere.
Alimentata da situazioni concrete, travestita da romanzo di formazione, ambientata nella attualità della guerra di Bosnia, la riflessione di Givone si fa palpabile angoscia e limpida intuizione, si arrampica per dialoghi vertiginosi e si riposa in freschi intermezzi narrativi, come quello dei due vecchi (il possidente e il monsignore) che degustano il vino nuovo o quello del fornaio che allena di buon mattino il figlio per farne un grande portiere, distensioni della scrittura forse da leggere (lo suggerisce l'autore) come figure della ricerca intellettuale e del pensiero, ma gustabili anche (e meglio) così, per la loro autenticità, vorrei dire per il gesto d'amore che ci si vede dentro. Anche chi diffida del linguaggio contorto di qualcuno dei testi filosofici citati da Givone nell'appendice dedicata alla biblioteca del suo personaggio (espediente un po' intellettualistico, in verità, per una vera e propria "bibliografia") cede volentieri alla suggestione di un dibattito vivacissimo, trattenuto dalla collocazione letteraria al di qua del fastidioso ermetismo specialistico proprio di tanta filosofia novecentesca. Questa "Favola" è - lo è soprattutto - un bel libro di filosofia.
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