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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2019
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Finalista al Premio Strega 2020 - Finalista al Premio Giuseppe Berto 2019 - Vincitore del Premio Libro dell'anno 2019 di Fahrenheit Radio Rai Tre - Vincitore del Premio Bagutta Opera prima
Un libro spiazzante, sincero e brutale, che costringerà le nostre emozioni a un coming out nei confronti della storia eccezionale di un ragazzo come tanti. Un esordio letterario atteso e potente.
«La leggenda personale del'autore che, sull'onda del potere catalizzante della patologia, trova la forza di comporsi, di ridisegnarsi in un ordine che solo il senno di poi, e il presentimento del temuto finale -la morte- imprimono al suo svolgimento. Malattia e destino, un tema classico in letteratura» – Corriere della sera
«Non un romanzo testimonianza. Febbre è la storia di un bambino nato e cresciuto a Rozzano. Un bambino indefinibile che desidera il Minipony rosa» – Sette
Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un’infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test dell’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore ci accompagna indietro nel tempo, all’origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –, il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla predestinazione della periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.Proposto per il Premio Strega 2020 da Teresa Ciabatti: «Febbre di Johnatan Bazzi è un romanzo che testimonia un presente che è già futuro prossimo. Questa è una storia del tempo nuovo: perché il fuoco è sorprendentemente altrove rispetto a dove è stato messo fin qui da letteratura e senso comune. Esula dai giudizi e sposta il baricentro sull'accettazione delle fragilità. Una lingua contaminata – la lingua di una periferia dove si parla un pidgin febbrile di milanese, napoletano, pugliese e siciliano – a tratti interrotta, a tratti fluida, distorce, denuncia, svela, innalza e abbassa la soglia della gioia. Così il protagonista, creatura in divenire, non cerca un'identità, o almeno non nelle categorie esistenti, ma ne inventa una sua personale in cui si ama su internet ("usatemi per studiare il cuore del nuovo millennio, quello che prima s'innamora e poi ti vede in faccia"), in cui si può essere tutto, felicemente tutto: colto, balbuziente, emotivo, gay, ironico e anche sieropositivo. L'Orlando di Virginia Woolf qui si condensa, e trova realizzazione in pochi anni. Non servono più secoli.»
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
La narrazione autentica e molto partecipata rende molto avvincente la lettura. Importante per affacciarsi su modi di vivere, di pensare, di affrontare la vita, diversi dai propri.
Libro stupendo. Molto interessante ed istruttivo. Letto in pochi giorni. Super consigliato
In questo suo esordio narrativo Jonathan Bazzi riesce a rendere trofei le sue cicatrici, a mutare in bellezza tutto il suo dolore.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
I vincitori del concorso "Caccia allo Strega" 2020
Giulia D. – Recensione stregata scelta da Jonathan Bazzi
Sopporto dunque sono: un mantra che l’autore e protagonista del libro deve aver ripetuto per troppo tempo. “Febbre” è la storia vera e aspra di Jonathan Bazzi, figlio di un passato che delude, abbandona eppure si lascia amare. Un passato che è una madre che nasconde la realtà e un padre che si nasconde dalla realtà. Sullo sfondo una cittadina, Rozzano, dove la scuola è un capriccio che ci si sbriga da soli e dove è lecito star male solo se si è malati. E Jonathan si ammala quando contrae l’HIV. La malattia si mette al centro della scena, lui la frantuma prima e la risemantizza poi. Malattia che diventa vessillo di un’identità cercata febbrilmente e poi respinta per pudore; che è alibi per star male e non sentirsi in colpa. Il virus è per Jonathan uno spartiacque, l’anno zero dopo il quale il tempo smette di decrescere e inizia a procedere. Frase, punto fermo, a capo. Frase, punto fermo, a capo: a ogni affermazione Jonathan sembra prendere le distanze da sé, o forse vuole solo dare pari dignità alle tante, contraddittorie, anime che lo abitano. Bazzi si racconta con uno stile martellante e frammentato, tra parole scelte con cura quasi chirurgica e un fare un po’ seduttivo e un po’ timoroso; un uomo che smette di guardarsi con gli occhi degli altri, distratti e giudicanti in parti uguali, e che con fatica e onestà rivela ogni strato di sé. A ogni strato si attacca una paura, ogni strato è in cerca di qualcosa: tenerezza, protezione, accettazione. Una storia che ha addosso luoghi e odori che spaventano e insieme attraggono; che è fuga da una vergogna atavica, ma anche bisogno di tenere insieme pezzi che hanno deciso di stare lontani. Il risultato è un puzzle turbolento, davanti al quale il lettore si sente a tratti voyeur e a tratti testimone. Con atmosfere dense e violente, “Febbre” racconta che ogni alba è solo un’occasione, l’ennesima, per gioire di essere diversi e un po’ sbagliati. Copertina: 4 Storia: 4 Stile: 4
elisa - la_dilettrice
"Ho deciso di essere un sieropositivo che si lascia individuare, che racconta più che lasciarvi immaginare. La precisione è l'arma di cui mi sono munito. La compagnia degli altri, la soluzione che ho scelto." In questo romanzo d'esordio, candidato al Premio Strega, Jonathan Bazzi racconta se stesso alternando due piani temporali. Il 2016, l'anno in cui inizia ad avere una febbre persistente e invalidante, e gli anni della sua crescita, fra i palazzi delle case popolari a Rozzano, hinterland di Milano, sud. Forse perché fin dalla prima pagina so già che è una storia vera, raccontata da chi l'ha vissuta, ed è subito corpo, sudore e sangue. Forse perché Jonathan mi porta nella sua infanzia e adolescenza, ed è tutto così difficile e crudele che aspetto che il riscatto si concretizzi qualche pagina più in là, senza chiedermi nemmeno che forma dovrebbe avere, il riscatto. Forse perché la scrittura è ritmata, pulita, asciutta ma tutt'altro che asettica. Forse perché sono cresciuta a pochi kilometri e a pochi anni di distanza, ma ho solo sfiorato da lontano una realtà come quella narrata. Forse per tutto questo insieme, e per il magico potere di certe alchimie che si creano anche fra libri e persone, ho iniziato a leggere Febbre e non l'ho mollato fino a quando non l'ho "divorato, lasciandolo intatto'' (che frase!). È un libro che parla di dolore, ma è percorso da una luce che solleva. Sospetto che sia la forza della verità che, una volta ancora, rende liberi. Stile 5, Storia 4, Copertina 4
Fertilmente
“Tra gli scatoloni in cemento delle case popolari io sono cresciuto in un’intercapedine, respirando una bolla d’aria diversa […] Mi sono abituato all’idea che mi dovrei vergognare di quello che sono e ho capito che il patto velenoso si può spezzare raccontando tutto […] A Rozzano mi sono esercitato a intonare una nota più alta. Stonata? Non chiudo la bocca. Resisto fino a quando non attaccherà l’accordo giusto” Per cercare questo accordo il 1 dicembre 2016 Jonathan scrive un articolo e racconta tutto.Decide di spezzare il patto e mostrarsi per quel che è,decide di raccontare in questo libro come sia arrivato ad intonare quella nota,a riprendere il controllo,parla di Rozzano,dove è cresciuto in un quartiere popolare in cui le vie hanno nomi di piante e fiori,“una specie di Sud ma senza il calore del Sud[…]sradicato e reimpiantato in fretta”,di una famiglia trasferita dietro al sogno di un lavoro,di una madre che per anni ha visto poco,di un padre narcisista e manipolatore che colleziona matrimoni e bugie, della sua balbuzie, di amori ideali per ragazzi sfuggenti e sesso consumato con sconosciuti sgradevoli,della scuola di parrucchiere, dell’amore per lo studio e dello yoga,di una ricerca di perfezione che lo ha perseguitato tutta la vita,la voglia di diventare inattaccabile e di piacere. La storia inizia con una febbre inspiegabile e lunghissima, che lo sfianca e gli toglie energie.Visite,esami,ricerche terrorizzate su Internet,paura di ogni sorta di malattia mortale e alla fine una diagnosi, l’HIV, tra un flashback e l’altro,in un avanti e indietro che “spiega” modi di essere e di agire. Apparente accettazione,depressione,la mente che comanda il corpo e lo conduce sull’orlo del baratro e poi,piano piano una svolta.Farmaci,cambi di prospettiva e quel marchio che ora lo caratterizza.Come un segno distintivo.Quel “virus,una bestiola un po’ scema che ha paura del rosa”,di una pillola rosa come un confetto,che diventa semplicemente un’abitudine. COPERTINA:4 STORIA:5 STILE:4
Daniele
Identità. Non è forse quello che tutti noi bramiamo di più? Quello che proviamo a raggiungere per tutta la vita, fallendo ad ogni tentativo? Quello che a volte ci inventiamo pur di trovare un’apparente sicurezza? L’identità: l’unico obiettivo che per ogni passo in avanti si allontana di dieci. Il Jonathan protagonista la trova un’identità, anche se non è proprio quella che tutti ci aspetteremmo per un ragazzo di trent’anni. È quella di malato. HIV, da sempre considerato più un simbolo che una malattia. Dei simboli però facciamo troppo spesso quello che ci pare, così Jonathan rompe il tabù, perfora il silenzio con l’arma che ama di più: le parole. Nel delirio rivelatore – della Febbre o della Letteratura? – racconta due storie che si intrecciano e giocano tra loro. La prima, quella della ricerca (che si fa sempre più violenta: per chi non è così?) di un’identità; la seconda, quella di un’identità scoperta con cui fare i conti. “Mi spiace, ci devi convivere tutta la vita – con la sensazione di essere fallato, guasto, rovinato per sempre”. La storia è piena di sapori. Ingredienti: materiale autobiografico condito con ansie, paure, ricerche sul web per abbattere la sensazione di morte che si avvicina, insicurezze, impulsi improvvisi, riflessioni empatiche e disarmanti. Con l’aggiunta di una salsa agrodolce di rapporti amorosi contraddittori, da una parte l’amore che salva, dall’altra quello che umilia, sottomette: una richiesta di violenza. Il piatto è servito freddo con uno stile spezzato che non lascia prendere aria. Una frase sull’altra con un ritmo veloce che sommerge, soffoca. Fatti crudi raccontati in maniera cruda. Che piaccia o no, lo stile riflette quel turbamento, quel dramma che tutti proviamo quando cresciamo e ci ritroviamo davanti agli aspetti più importanti di noi, potenti e incontrollabili ma nostri, sempre nostri, meravigliosamente nostri. Copertina: 5 Storia: 5 Stile: 4
Cristiano
Un romanzo di formazione tra le rovine della periferia milanese. Jonhatan, animo ipersensibile, cresce nella sua "Rozzangeles", un paese che gli germoglia dentro, come un filo spinato attorno al cuore e gli occhi, come erba selvatica tra brutti palazzi ed anonime vie senza uscite. L'anima manga si corazza gradualmente tra abbandoni, violenze in famiglia, morti violente e quotidiane sopraffazioni. Complice un immaginario pop che mai l'abbandona, l'adolescente trova una sua strada lavorativa ed un amore. Ma l'ombra di un palazzo livido più grande incombe sull' animo dell'ormai 31 maestro di yoga: L' Aids. Bazzi dipinge un moderno affresco del "profondo" Sud coattamente integrato in un Nord algido, senza pietà. Bazzi puntella un solido romanzo attraverso un originalissimo pastiche linguistico, innesta una prosa rapida, puntuale e lirica che ricorda il Tondelli più intimista di "Camere Separate", e riesuma dagli anni 80 il francese Guibert più doloroso con le sue cronache dei primi malati di Aids de "Le protocol compassionel". Accattivante la scelta di una copertina Pop il cui contrasto cromatico tra rosso e giallo, unita ad una simbologia che richiama le reliquie dei santi, cattura l'attenzione del lettore e riassume icasticamente il plot romanzesco. Copertina: 4 Storia: 4 Stile:4
Per Jonathan Bazzi scrivere il romanzo d’esordio, in gran parte autobiografico, Febbre (326 pagine, 18, 50 euro) è stato allo stesso tempo un bisogno intimo e un atto politico. La casa editrice Fandango che lo ha pubblicato ha intuito la funzione morale e sociale di un libro che ha il grande pregio di liberare il lettore dai pregiudizi nei confronti dei sieropositivi. Leggere, pertanto, diventa un atto politico in sé, come scrivere: lo stesso autore afferma che le persone sono soprattutto il loro prendere posizione rispetto a circostanze, fatti e vissuti.
Jonathan ha poco più di trent’anni, vive a Milano con il compagno Marius, frequenta la facoltà di Filosofia e si mantiene insegnando yoga. Ben presto, 37 diventa un numero ossessivo: la linea sotto la quale non scenderà più la sua temperatura corporea, «il confine, lo spartiacque – tra quello che ero e quello che sono». Una stupida febbricola di cui non si comprende la causa, non subito almeno, e che lo fa sprofondare in uno stato quasi catatonico. Tenta di reagire continuando a trascinare il suo corpo alle lezioni di yoga, sebbene da diverse settimane la stanchezza e la fatica non lo abbandonino, al punto che anche mangiare richiede uno sforzo eccessivo. Vuole solo dormire, dimenticare il suo malessere, il suo corpo madido di sudore. La sua testa, però, diventa un vortice di idee e pensieri pessimistici: crede di essere vicino alla morte a causa di una malattia che non ha ancora scoperto, ma che pian piano lo isola e lo catapulta in quella dimensione che segna la linea di demarcazione tra i malati e i non malati, fino a quando non scopre di essere sieropositivo.
Una scoperta che diventa una vera e propria catarsi, ovvero la liberazione dell’anima dall’irrazionale, dai conflitti interiori e dallo stato di ansia in cui si era riversato. Attraverso la scrittura, l’autore cerca di restituire le impressioni, gli stati d’animo e i dubbi che hanno preceduto e poi accompagnato la scoperta del virus. Ciò che sorprende è la reazione di Jonathan a tale scoperta che avrebbe sconvolto chiunque, ma non lui che riesce a trasformare la malattia in opportunità: affronta il dolore, lo attraversa da parte a parte, lo riduce in frammenti con le parole. Sceglie di essere un sieropositivo che si lascia individuare, che non teme di raccontare come si convive con l’HIV e non ha paura di mostrare la propria fragilità.
«Col virus voglio farci qualcosa, agire su di lui, modificarlo, non essere inerme, subirlo – mi interessano sole le cose con cui posso imparare. Scriverne, per esempio, sfruttando la mia condizione di privilegiato, di contaminato che non prova vergogna. Rinominare quello che mi è successo, appropriarmene con le parole, per imparare, vedere di più: usare la diagnosi per esplorare ciò che viene taciuto. Darle uno scopo, non lasciarla ammuffire nel ripostiglio delle cose sbagliate»
Febbre, però, è anche altro. È il racconto di un’adolescenza trascorsa a Rozzano, una delle periferie più difficili di Milano, «il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali». È nelle periferie che si trovano i problemi della città: povertà, disoccupazione, ambiente degradato, delinquenza, violenza. Nascere e crescere in questi luoghi può diventare una condanna, una punizione per una colpa che non si sa bene quale sia. «Rozzano mi odia. Rozzano l’ho odiata», scrive Bazzi che racconta la difficoltà di vivere l’omosessualità in un contesto chiuso, complicato; il timore di ritrovarsi solo e di non essere accettato; il terrore di essere invisibile, non solo in una realtà più vasta come può essere un quartiere, ma anche all’interno della propria famiglia, anch’essa stigmatizzata. Non è un’infanzia serena quella di Jonathan: con genitori separati, è cresciuto con i nonni e gli zii in una periferia che diventa la sua carta d’identità («ho Rozzano incastrata nel nome, se parlo di me devo parlare di lei»).
«Ai bambini invisibili», è tutto racchiuso nella dedica del romanzo che si legge nella primissima pagina del libro. In tutta la sua esistenza, infatti, deve fare i conti con la voglia e il desiderio di essere altro, ma soprattutto con la difficoltà di convivere con il giudizio di chi lo vuole «altro», diverso: per il padre è Desireè, la figlia che non è nata; per i nonni è Antonio, il nipote che si sarebbe fatto rispettare. Febbre è anche la storia di una famiglia che conosce la violenza e, in mezzo a tanti egoismi, dimentica la fragilità di un bambino che convive con la consapevolezza di essere invisibile, persino per la madre verso la quale nutre un rapporto quasi di dipendenza, mentale più che fisica, che ostacola le tappe del suo percorso verso l’autonomia. Ancora di più per il padre. Si potrebbe, forse, parlare di un’infanzia negata, vissuta tra il rifiuto di crescere (Jonathan, per esempio, usa il biberon fino a 10 anni; va in bicicletta con le rotelle fino a 12 anni) e il desiderio di affrancarsi ed emanciparsi dagli affetti che, con la loro “non presenza”, sono diventati fin troppo ingombranti, provocando delle ferite insanabili.
Con una scrittura dolce e allo stesso tempo severa e un linguaggio mai ricercato ma schietto e spontaneo, Bazzi regala una sensazione di profonda intimità alle sue pagine, che contengono ampie e appassionate riflessioni sulla sessualità e sulle relazioni interpersonali ai tempi dei social. Ciò che viene fuori è un libro che racchiude l’origine di tutto ciò che Jonathan è stato ed è: una sorta di crocevia esistenziale in cui si incastrano diversi tasselli, tante micro-storie legate assieme da un filo autobiografico. È chiara la presa di coscienza dell’autore, consapevole che la vita costringe a rinunciare agli ideali e fare i conti con la realtà che, nel suo caso, vuol dire affrontare una malattia che stravolge non solo il corpo, ma anche l’anima a causa dell’idea della morte che irrompe prepotente. Attraverso la malattia, però, Bazzi sembra imparare a conoscersi, a comprendere quel connubio uomini- male che nasconde radici profonde, radici nel cosiddetto «non amore», la patologia che forse più teme e lo ha fatto soffrire. «La ferita dei non amati non si rimargina più?», si e ci chiede nelle ultime pagine. Forse non saremo in grado di dare una risposta, ma per un profondo senso di giustizia l’autore vuole che «tutti sappiano la verità», fatta di storie ed esperienze di cui è stato testimone intimo e privilegiato. Storie in cui affiora la durezza conosciuta fin da piccolo tra le mura domestiche. Ecco che la scrittura diventa la cura.
Un potentissimo esordio quello di Bazzi, non v’è dubbio: attraverso le parole è riuscito a svestirsi del mantello dell’invisibilità e a ritrovare il suo posto nel mondo, a dare uno scopo a ciò che gli è accaduto: fare in modo che gli altri, i «non malati», capiscano che «i sieropositivi sono ovunque, schiera sommersa, silenziosa. E vi stanno a guardare».
Recensione di Arcangela Saverino
11 gennaio 2016: a Jonathan viene la febbre, una febbre che non va più via, una febbricola bassa, ma continua e spossante che sembra togliergli tutta la sua energia vitale.
Quel giorno cambia radicalmente la sua vita: diventa “il confine, lo spartiacque – tra quello che ero e quello che sono” [pag. 9]. Si inizia la ricerca della causa di quel malessere, lunga ed estenuante, quasi quanto la malattia stessa. Dopo mesi ecco la risposta a ogni dubbio: tre lettere, quello che sembra un marchio a vita, HIV.
Jonathan è stranamente sollevato; almeno adesso la sua strana malattia ha un nome, si può tenere a bada ma l’entusiasmo dura poco e ben presto sprofonda in un profondo stato depressivo. Trascorre le sue giornate nell’apatia più completa alternando le molte ore di sonno alle altrettante passate davanti al computer alla ricerca di una diagnosi ulteriore: un tumore, la SLA, non può essere solo l’HIV a farlo stare così male.
Saranno l’amore di Marius, il suo compagno, la caparbietà della madre a cercare di trascinarlo fuori dalla sua depressione un passo alla volta.
Il romanzo si sviluppa su due piani temporali diversi: quello del presente, di Milano, di Marius, della loro casa e dei loro gatti, della depressione post diagnosi, e quello del passato, della sua adolescenza a Rozzano, quartiere della periferia sud di Milano. Ci racconta tutto: il suo essere figlio non cercato di un amore giovanile e nella gioventù rimasto, la difficoltà di crescere in un quartiere dominato dall’ignoranza e da una mascolinità tossica e in quel luogo scoprire la propria omosessualità
Febbre è un libro forte, spiazzante e unico. È un percorso di riscatto e liberazione da stereotipi e stigmatizzazioni. Con la sua scrittura chiara e coinvolgente Bazzi riesce, senza mai cadere nel pietismo, a trascinarti nel suo mondo e a farti trovare la bellezza dove non credevi fosse possibile esserci.
Recensione di Marianna Danesi
Si ringrazia il Master Professione Editoria dell'Università Cattolica di Milano
Un romanzo autobiografico crudo, senza fronzoli né perbenismi o giri di parole, in cui l’autore si mette a nudo con coraggio, anche se egli stesso non ritiene di doversi definire coraggioso.
Siamo nel 2016 quando Jonathan scopre di essere sieropositivo, prostrato da giorni e giorni di una febbre continua, che non accenna a passare, dopo una serie di diagnosi poste dal medico a cui si rivolge e suggerite dai siti internet che consulta, ormai convinto di avere una malattia grave che lo porterà a morte certa e in breve tempo. Per questo la positività del test HIV è per lui inizialmente un sollievo. Ed è forse qui che diventa per lui ancora più evidente il suo scollamento dal “sentire” comune: quella che per gli altri sarebbe una notizia emotivamente devastante, per lui non è che un test con un esito positivo, qualcosa che si porterà addosso per sempre, che cambierà la sua routine, ma di cui non ha la paura che tutti si aspetterebbero. La sua reazione è guardata come anormale, ma Jonathan è abituato ad essere considerato diverso: bambino che vuole giocare con le bambole, balbuziente, “maschio “ che non sa picchiare pur essendo cresciuto in un quartiere di periferia, in cui chi non sa difendersi non ha vita facile, omosessuale, incapace di vivere non solo le storie d’amore, ma anche gli incontri occasionali, con leggerezza.
Ora si trova ad essere malato e, soprattutto nella fase iniziale ancora di incertezza, ad acquisire maggiore consapevolezza di sé e di quello che è stato il suo percorso: “La malattia recinta, scinde, confina chi ne è portatore in una sfera a parte – egoista, impaurita -, lo riporta nell’io-me primordiale che non vede altro che se stesso”.
Inizia così, forse, la spinta a raccontarsi, partendo proprio dall’inizio, dagli affetti e istinti primordiali, ripercorrendo le tappe salienti della sua vita: dall’infanzia difficile in una famiglia problematica, figlia di una periferia ostile, alla giovinezza in cui il tempo era spesso trascorso alternandosi tra le chat e l’ossessiva ricerca della perfezione e del riscatto in ambito scolastico. Un lungo viaggio a ritroso fino all’età adulta, al momento della diagnosi che dovrebbe cambiarti perché ti cambia agli occhi degli altri, ti espone ai giudizi e ai pregiudizi della gente che li usa come qualsiasi altro strumento per esorcizzare la paura. E non importa che sia il 2016 e che il decorso e, soprattutto, l’epidemiologia di questa malattia siano ormai ben noti come molto diversi da quello che si pensava all’epoca della sua scoperta: diventa sempre e comunque pretesto per escludere e segregare, come se questo ipocrita allontanare da sé potesse proteggere dall’esserne toccati.
Jonathan Bazzi non ci sta. Di sé scrive: “Ho contratto l’HIV ma non sono il paziente che prende atto e si adegua, che convive con un segreto che centuplica l’importanza della diagnosi”.
I suoi segreti, al contrario, diventano l’arma per continuare a vivere essendo orgogliosamente se stesso, con pregi e difetti, con le sue paure e le sue capacità, con i suoi errori, i rimpianti e i rimorsi, messi tutti sul tavolo, a carte scoperte. E se non è coraggio questo…
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