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Premi
2016 - Oscar [Academy Awards] - Miglior film straniero
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Il film affronta consapevolmente e con grande lucidità i concetti filosofici e i pensieri che hanno a che fare con il problema della rappresentazione ed è, anzi, proprio da questi interrogativi che prende le mosse. László Nemes costruisce un’opera che prima di tutto, attraverso scelte estetiche radicali e per certi versi estreme, si pone come una riflessione sui concetti di rappresentazione e percezione. Nemes – che gira in 35mm e in formato 1.33:1 – incollato per tutto il film alla nuca e al volto del proprio protagonista, si getta in una sfida difficilissima. Sa che la materia che maneggia è incandescente e per questo decide dare il risalto maggiore all’aspetto estetico. Il giovane regista ungherese filma l’interno di Auschwitz nell’unico modo possibile. Lasciando cioè che lo sfondo, ciò che sta dietro, il background di ogni inquadratura rimanga confuso in una permanente sfocatura. Per tutto il film vediamo a fuoco solo il protagonista e le persone con cui egli viene a contatto, mentre tutto quello che sta dietro, sia negli interni che negli esterni, assume la consistenza di un altrove sfumato e incorporeo. L’annullamento della profondità di campo fa sì che ogni elemento che costruisce spazialmente, e quindi retrospettivamente, il campo di sterminio sia qualcosa che non solo non si può vedere, ma nemmeno toccare e capire. Perché non lo si può comprendere, ridurre alla ragione e all’esperienza. Al rigore estetico e al formalismo fa eco un rigore narrativo che, proprio come lo stile, è curato nei minimi dettagli. Auschwitz è l’inferno sulla terra e Saul, che è la nostra guida, attraversa i gironi di questo inferno mostrandocene la sofferenza, il degrado e la miseria ma cercando di rintracciarvi un sintomo, un segnale, un indizio che sia il testimone di una salvezza possibile, di una via d’uscita da tutto quell’orrore. Saul sa che seppellire un corpo significa salvarlo. E salvarne uno significa salvarli tutti quei corpi.
Un film da vedere e rivedere, uno dei pochi che ci consegna una visione della shoah in grado di superare la mera e falsificante rappresentazione dei campi di sterminio.
Recensioni
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Un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte
Trama
Ottobre 1944. Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente che 'accompagna' nell'ultimo viaggio. Isolati dal resto del campo i sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli. Testimoni dell'orrore e decisi a sopravvivervi, il gruppo si prepara alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano, Saul riconosce nel cadavere di un ragazzino suo figlio. La sua missione adesso è quella di dare una degna sepoltura al suo ragazzo. Alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti il Kaddish, Saul farà la sua rivoluzione.
Come succede con ogni film sull’Olocausto, Il Figlio di Saul verrà criticato per il fatto che il cinema è un media troppo leggero per raccontare un male così profondo. Ma non c’è niente di legger in questo capolavoro ungherese del regista esordiente László Nemes. Non solo è una testimonianza degli orrori, te li fa sentire nelle ossa.
Nemes tiene la sua camera fissa su Saul Auslander (Géza Röhrig), un prigioniero ebreo ad Auschwitz. Saul riesce a scampare temporaneamente ai forni lavorando per la Sonderkommando, una sezione di ebrei obbligati ad aiutare a uccidere altri ebrei e dell’eliminazione dei corpi. Vediamo solo quello che vede Saul, gli atti più atroci sono sfocati in secondo piano, ma è tutto ancora più terrificante per questo.
La tensione cresce quando Saul trova il corpo di un ragazzo che è sopravvissuto ai gas. Quando il ragazzo muore, Saul prova a fare l’impossibile per dargli una sepoltura ebraica. Il ragazzo è il figlio di Saul? O è simbolo di una perdita più grande?
Tutto quello che vi serve sapere è negli occhi spettrali di Röhrig, la cui performance cruda e affascinante è superlativa. Nemes affronta di petto un argomento di enorme complessità.
Il risultato è, semplicemente, un grande film.
Recensione di Peter Travers
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