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Sia nell’introduzione che nella postfazione, Putnam introduce le sue riflessioni partendo dalla propria esperienza, con l’affermazione perentoria che la religione “o è anche una questione personale, o non è nulla”. Il suo avvicinamento alla pratica religiosa, in età matura e dopo una vita agnostica, non è stato determinato da una conversione, ma da un avvenimento occasionale ed estrinseco: la volontà del figlio di celebrare il “bar mitzvah” coinvolgendo tutto il nucleo familiare nelle funzioni e nelle formule rituali di preparazione. L’abitudine presa allora di ricorrere quotidianamente a mezz’ora di raccoglimento e di preghiera, fece del celebre filosofo Hilary Putnam un convinto “ateo credente”. Ateo in quanto negatore di qualsiasi vita ultraterrena e della Provvidenza; credente perché convinto che la pratica costante della meditazione, della preghiera, dei riti e dei testi millenari dell’ebraismo, e dell’adesione ai precetti morali ad essi sottesi, producessero effetti positivi di miglioramento nelle persone e nella società. Nei pensatori presenti in questo volume, Putnam recuperava appunto un insegnamento spirituale capace di avvicinare l’uomo al suo prossimo e a una verità oltrepassante la pura materialità dell’esistere. Martin Buber insisteva sulla relazione io-Tu nel rapportarsi con il divino, sostenendo che l’uomo non deve teorizzare su Dio, ma “rivolgersi” a lui. Emmanuel Levinas indicava nella disponibilità e nell’apertura all’altro la “fenditura” che sgretola le categorie individuali e mette in comunicazione con il soprannaturale. Franz Rosenzweig suggeriva di affidare sé stessi a un esercizio di filosofia esperiente, trasformatrice, che conducesse al precetto del “retto fare”. Non è tanto, quindi, un’attività speculativa e teorica che può introdurre a Dio, quanto un atteggiamento di “perfezionismo morale” in grado di porre la persona in una disposizione di ascolto, di umile accettazione del magistero biblico, di servizio verso l’altro da sé.
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