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Un libro poetico. Aspro e tenero. Uno dei migliori di Lodoli. Che dire...io l'ho riletto per la seconda volta...
il mio scrittore preferito......grazie marco
Quella che Lodoli ritiene essere poesia, è in realtà elegia appiccicosa e languida. Libro molto brutto.
Recensioni
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La necessità di postulare l’esistenza di un occhio che vegli, rassicurante, sulla spaventosa complessità in cui siamo immersi, ricomponendo in un rigoglioso campo di fiori perfetti ciò che è disordine, terrore, insensatezza, domina l’ultima prova di Marco Lodoli (1956), nel tentativo, tra l’utopistico e il velleitario, di attribuire un significato forte alla presenza umana sulla Terra. Certo si tratta di un occhio che non ha molto a che fare con la pupilla indagatrice e un po’ terribile che si affaccia dal classico triangolo dell’iconografia biblica: in un universo sub specie letteraria il supervisore coincide con il direttore di una fantomatica rivista, appunto di letteratura, curiosamente dotata di un titolo che rievoca la dimensione animale e privata dell’uomo: "La tana". Il succedersi dei personaggi che via via incarnano un simile sguardo sul mondo avviene per vie oscure, attraverso una silenziosa cooptazione: così è per Tito, protagonista del romanzo, postino nei fatti e poeta nel cuore, capace di trasformarsi in cane e di infrattarsi sordidamente insieme ai suoi simili, ma anche di scrivere versi e di leggere, interpretandole, le trame più recondite della realtà. Tito, ricevuta la lettera contenente la straordinaria chiamata del direttore della "Tana", abbandona ogni cosa nota e raggiunge Roma dove, in piazza del Fante, ha sede la rivista. Subito gli è chiaro il suo destino: ciò che lo attende è un lungo apprendistato, fatto di pazienza e di avventure, di solidarietà e di sofferenza, di amore e di follia: solo dopo aver attraversato tutte queste prove potrà incontrare colui che dovrà sostituire e iniziare il suo compito di voyeur privilegiato, destinato – o costretto – a vigilare su una "fragile perfezione con gli occhi e con le parole", dalla finestra "di una casa in cima al mondo". Se l’esito finale è quello di una sconfinata e consacrata solitudine, Tito non è solo nel suo percorso di formazione: lo accompagnano Aurelio, zoppo paladino di una giustizia assoluta, e Morella, profetessa e maga tristemente destinata a rinchiudere la sua vista interiore nel recinto di una casa di cura, incapace com’è di reggere il confronto con la violenza e il cinismo della realtà che la circonda. Tra sangue e denaro, visioni e degradazione, malattia e miseria, il triangolo Tito-Morella-Aurelio si regge su una superiore capacità di sentire e tollerare l’altro, accettandolo e amandolo senza riserve, senza limiti, senza curarsi degli sviluppi futuri, tant’è che il finale, morta Morella e scomparso Aurelio, illusosi di aver raggiunto il suo ideale di una giustizia fai-da-te, consiste in una evidente celebrazione del qui e ora, del tempo che è insieme dinamicità e stasi. "Nulla manca al presente" è infatti il messaggio che Tito riceve dal suo predecessore, appena prima di provocarne la morte. "Nulla manca al presente, ma dover morire è terribile", aggiunge però la vittima consenziente, ed è in questa straordinaria ingenuità e sincerità che sta la bellezza dei Fiori di Lodoli, un libro che per la sua densità simbolica (i richiami sono infiniti, nell’onomastica, nelle evocazioni mitologiche, cristiane, freudiane), per il desiderio – e la pretesa – che lo anima di voler dire tutto, esporre all’aria le viscere di tutto, usare tutti i trucchi del mestiere di scrittore (citando spesso atmosfere letterarie altrui: kafkiane, pirandelliane, per rimanere a quelle celeberrime) è a tratti insopportabile, se non fastidioso. La sincera paura che vi si respira, l’infantile bisogno di rassicurazione, la fatica del divenire adulti, del sostituire i propri padri dopo averli divorati: questa autenticità è degna di nota, è vibrante, è una cifra distintiva; è la forza di chi ammette lo smarrimento infinito di una generazione chiamata a registrare il volgere di un secolo, di un millennio, di un frammento (forse) significativo della storia umana, e che a dispetto di ogni rivolgimento tecnologico, di ogni acquisizione della più spinta modernità ha sempre gli stessi ingredienti interiori per cavarsela, ha sempre una formidabile paura del buio, della solitudine, ma accetta la sfida della fine, cercando di darle un senso, un ordine. Quanto poi sia credibile, o quanto invece possa sembrare gratuito questo delirio di onnipotenza delle parole, non è importante stabilirlo, dipende dalla sensibilità – o dalla necessità di essere consolati – che ciascuno dei lettori possiede: ma com’è vero che, per dirla con le parole di Tito, se non ti fai del male non cambia mai nulla, affrontare ciò che è al contempo tanto banale e tanto sublime richiede comunque una certa dose di coraggio, un’attitudine che nelle pagine dei Fiori va riconosciuta e, come si diceva, opportunamente apprezzata. Soprattutto in quei frammenti che, secondo la migliore tradizione della prosa italiana, risultano assolutamente lirici e assolutamente piacevoli: che fortunatamente sono presenti, e numerosi, magari al punto di mettere a repentaglio la continuità del romanzo in quanto tale, spezzandola, costringendola a girare su se stessa, oppure diminuendo la compattezza e la vitalità di alcuni personaggi: ma è una caratteristica che accomuna Lodoli a una larga parte dei romanzieri italiani del Novecento, capaci di fornire prove di straordinario valore sulla breve misura, meno brillanti e più pretestuosi sulla lunga durata, sulla complessità dell’organizzazione narrativa. Anche qui, l’hic et nunc insegna.
recensioni di Bo, R. L'Indice del 1999, n. 09
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