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Romanzo che mi ha colpito da subito per il titolo...per altro perfetto! L'idea del dialogo che è sostanzialmente un monologo mi è piaciuta molto, anche se forse non è originalissima. Le riflessioni sul Pakistan, gli U.S.A e le loro relazioni politiche e sociali, sono poste in modo originale e mai banale. La sensibilità di questo autore e l'abilità a tratteggiare le situazioni con immagini è dote rara. Il ritmo è buono e la scrittura è fluida, l'argomento è accattivante..insomma mi è piaciuto!
Libro originale ed a mio parere abilmente congegnato. Interessante conoscere il punto di vista di un giovane pachistano, radicato nel suo ambiente, che vola negli USA per completare la sua formazione. Inevitabilmente si trova a dover cozzare contro una cultura ed una società diametralmente opposte a quelle di provenienza. Se in un primo momento il protagonista viene "fagocitato" dal sistema, il crollo delle torre gemelle costituisce un campanello di allarme che lo porta a rinunciare a successo e carriera e rivedere un po' tutta la sua vita. Il finale è davvero inaspattato!
L'idea di partenza - far parlare "in presa diretta" un pakistano già occidentalizzato e poi convertitosi ad una specie di odio sordo per l'Occidente - è molto buona, anche se non originalissima. Lo stile è affascinante, lo sviluppo molto ben condotto, la voce narrante - sussiegosa ed in fondo sinistra - tiene alta l'attenzione (la storia, poi, è molto breve). Convince poco lo "scatto" dentro il personaggio di Changez: il passaggio che lo fa convertire ad una specie di apostolo della jihad da paladino del modello statunitense di sviluppo. Poco convincente mi è parso il collegamento fra la linea narrativa principale e la storia d'amore - di per sé molto bella, tutta giocata sul senso di perdita personale/collettivo post 9/11. Un libro comunque onesto e tutt'altro che brutto (non foss'altro per l'impegno nell'edificarlo come discorso diretto - il che peraltro fa tanto scuola di scrittura).
Recensioni
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Dopo il non felicissimo esordio di Nero Pakistan (Piemme, 2004), Mohshid Hamid sembra aver voluto rimodulare quella storia e dar vita a un personaggio che sembra nascere dalle ceneri di Daru, il giovane pakistano dalle grandi ambizioni che sprofonda in un abisso di droga e vanità, tenendo sullo sfondo la tragedia dell'11 settembre, che funziona, in questo caso, da catalizzatore a acceleratore della presa di consapevolezza di Changez, il brillante ventiduenne pakistano di cui qui si narra la parabola. Subito dopo la laurea a Princeton, Changez è assunto da una società di consulenza finanziaria di New York che lo tiene nel palmo della mano offrendogli infinite occasioni di poter esibire le sue qualità di "tagliatore di teste". Intanto incontra, durante una vacanza in Grecia, Erica, una ragazza bien enlevée, il prototipo del miglior prodotto di Mahattan, di cui si innamora perdutamente: "Potevo, senza esagerare, guardarla per ore. La fierezza del suo portamento, la muscolosità delle braccia e delle spalle (
) tutto ciò mi riempiva di desiderio". La New York, prima e dopo il crollo delle Torri, è lo scenario dei loro amori, dei picnic, delle serate nei loft, delle lunghe passeggiate. Eppure non tiene, la tragedia ha cambiato le persone, al punto che ciò che sembrava tacere, sommerso, non può che venire a galla. Come in un gioco di rimandi e premonizioni, Erica mostra il suo lato oscuro e, dopo avere fatto l'amore con Changez, si chiude in un isolamento sempre più cupo, dominato dall'ossessione del ricordo del suo primo amore morto di cancro. Come lei, anche l'America non riesce più a guardare avanti: "Per la prima volta fui colpito dalla sua determinazioni a guardare indietro". Changez tenterà di richiamarla alla vita, ma saranno sforzi vani. E lui, come ammaliato da un canto di sirena che gli ricorda la sua vera identità e la sua attuale condizione di giannizzero del capitalismo, decide di licenziarsi e di tornare in Pakistan. Alcuni recensori qui hanno visto una conversione al fondamentalismo, alla quale il lettore sarebbe quasi dolcemente accompagnato. In verità, e forse è questa l'abilità più grande di Hamid, le cose restano sospese, strappate a ogni ovvia conclusione. Il romanzo è scritto sotto forma di una lunga conversazione a una voce sola, quella di Changez, che diviene via via una confessione, un andare dentro la memoria per riportare alla luce le proprie responsabilità. Un classico dispositivo, insomma, che nel Lermontov di Un eroe dei nostri tempi trova un possibile antenato. Un romanzo molto efficace e ben chiuso su se stesso, che non estremizza le posizioni ma non semplifica i conflitti. Una storia d'amore fragilissima stritolata dalla politica.
Camilla Valletti
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