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L'incipit del romanzo di Marguerite Duras più amato dal pubblico, L'amant, prende spunto dall'evocazione di una fotografia che non è mai stata scattata: una Duras quindicenne con sandali dorati dai tacchi alti, colta, durante la traversata del Mekong, sul battello che la porta verso colui che diventerà il suo "amante cinese". Il racconto nasce da un'immagine invisibile: è solo uno dei tanti paradossi che caratterizzano, nella letteratura del Novecento, l'incontro tra la narrazione (spesso, ma non esclusivamente, autobiografica) e la fotografia. Ora descritta, ora ricordata, ora inserita direttamente nel testo, l'immagine fotografica svolge, nel romanzo novecentesco, un ruolo davvero centrale: lo invade e lo modifica con la sua autonoma e complessa temporalità, con il suo statuto di traccia, con la sua densa ambiguità semantica dall'ineludibile impatto emotivo. Nei tre scrittori qui studiati, contribuisce all'elaborazione di un'estetica del frammento e di una poetica della memoria impossibile, in cui naufraga l'utopia proustiana del tempo "ritrovato" attraverso i miracoli della "memoria involontaria". Ma al di là di Duras, Modiano e Perec, l'autrice di questo volume di forte impegno teorico affronta con grande ricchezza di riferimenti (da Baudelaire a Benjamin, da Barbey d'Aurevilly a Thomas Mann, a Barthes, a Sontag) un tema d'inesauribile complessità: la problematica presenza della fotografia nel cuore delle forme narrative novecentesche e del loro progetto sovversivo nei confronti della mimesi del reale.
Mariolina Bertini
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