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«Munforte non ha smesso di plasmare una materia di incandescente pregnanza esistenziale, di cui è conferma adesso Il fruscio dell'erba selvaggia» - Massimo Raffaelli, Il Venerdì
«Ha una prosa levigata fino alla trasparenza, Munforte. E dietro il suo descrivere anche i gesti minimi, umili, quotidiani, c’è una strana commozione, trattenuta». - Paolo di PaoloLeggendo questo libro si ha l'impressione di guardare un lungometraggio. Trama ben architettata, sintassi e dialoghi corretti, lessico e registro linguistico accurati. La vicenda si apre con la scena del crimine che evoca un poliziesco all'italiana, la scena si sposta poi in un altro ambiente dove si ritrovano molti operai feriti , in attesa di essere salvati da un dolore lacerante. Proprio lì nasce un'amicizia intrisa di empatia tra il protagonista ricoverato "per un incidente alla gamba...su una pista da brocchi" e un camionista, Massimo, ex operaio specializzato al tornio numerico di precisione. Massimo racconta il suo passato tatuato come un mondo portato sulle spalle e sull'anima. Parla del frate di un Istituto e della prigione. Il suo angelo biondo, sua moglie, è sempre al suo fianco, nata dalla sua costola, lo accarezza e ne asseconda i moti d'affetto. Ma le sequenze si intrecciano e la fine di Massimo, ferito e ucciso, si ricongiunge con gli anni in cui il ragazzo che era nell'istituto, ha messo a nudo la coscienza di un frate la cui vocazione ha l'odore della neve disciolta. Dopo aver conosciuto Massimo il frate subisce una evoluzione che sembra provenire direttamente dagli occhi di Massimo pieni di quella forza propulsiva e abbagliante che ha fatto luce nel saio polveroso del penitente , in bilico tra l'estasi e le fustigazioni in cui cerca di distruggere la verità e l'esistenza "lunare" dei matti, ospiti del convento. Ma nel libro c'è qualcosa che non convince, manca il pathos che trascina nel fondo delle parole e manca lo spessore psicologico dei personaggi che appaiono, troppo spesso, sullo sfondo, sospesi dentro case di cartone di una città grigia e fumosa del Nord. La trama,sebbene storicizzata, 1991, si appiattisce nel mobilio essenziale e tratteggiato, nelle immagini in superficie e trasparenti, nelle azioni che si susseguono rapide come in un film.Manca quel tempo narrativo necessario che battezza come letterari, ambienti e personaggi.
Racconto schietto, Lunghezza giusta, ben scritto, nero, drammatico. Storia di perdenti, veri e cupi come Milano nord e le fabbriche. Un racconto su tre dimensioni temporali che alla fine confluiscono senza difficoltà per il lettore, molto di più di un noir, una storia sulla perdita della fede. Per quello che cerco, per ciò che mi piace leggere non potevo trovare di meglio.
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