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Nonostante abbia letto molte recensioni negative ho trovato questo libro bello e avvicente. E' il 4° libro di Yehoshua che leggo e trovo che il più bello finora sia L'amante. Fuoco amico diciamo che è un "classico",Yehoshua ripete un pò lo stesso tipo di coppia, molto simbiotica, marito un pò sottomesso e moglie dominante, fedeli che dopo molti anni di matrimonio sentono la mancanza uno dell'altro. Ma in Israele i mariti sono tutti così bravi perchè se è così devo andarci a dare un'occhiata. Comunque anche se non ho mai nutrito simpatia per questo paese e i suoi abitanti Yehoshua mi ha fatto venire voglia di andarci. Bella la lezione di ebraismo che racconta il cognato Geremia. Un pò imcomprensibile lo "spogliarello" di Daniela con il cognato ma nei suoi libri c'è sempre un episodio irrazionale, forse la moglie psicanalista lo influenza. Non vedo l'ora di iniziare un altro suo libro.
Uno yehoshua di maniera. C'è tutto il suo mondo: il viaggio, la famiglia, i popoli che dialogano e divergono, il minimalismo, l'ottimo stile, l'atmosfera sospesa. Ma il libro non vola alto come gli altri del bravissimo Yehoshua. Nel finale poi una caduta rovinosa rischia di compromettere tutto quello che c'è di bello.
La vicenda di questo romanzo corre parallelamente in due diversi e distanti luoghi geografici: Tel Aviv e Tanzania. Nel primo, un progettista di ascensori è chiamato a risolvere qualche problema tecnico in un grattacielo di recente costruzione per difendere il buon nome della sua azienda, nel secondo ha scelto di stabilirsi, forse per sempre, un cognato vedovo del protagonista, in una sorta di isolato e volontario esilio. Egli vuole fuggire dal suo Paese che in qualche modo considera responsabile della morte del figlio, ucciso per errore (da "fuoco amico", appunto) in un'azione militare israeliana nei territori occupati. Seppur con qualche sprazzo interessante, la trama appare complessivamente piatta e deludente anche se il libro, forse, si proponeva più alti intendimenti politici e sociali.
Recensioni
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Dopo Il responsabile delle risorse umane, ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua uscito in Italia nel 2004, è arrivato a quattro anni di distanza Fuoco amico, due anni dopo la pubblicazione in lingua originale. Se Il responsabile delle risorse umane era stato concepito come "una passione in tre atti" in cui si cercava di "trovare un senso insieme" alla drammaticità e all'oscurità del periodo della seconda Intifada, con Fuoco amico siamo coinvolti in un "duetto" che ci dà il polso della società israeliana contemporanea attraverso la storia e le vicende quotidiane di quattro generazioni di una famiglia israeliana qualsiasi, la famiglia Yaari. E, misurato attraverso questa famiglia, il polso della società israeliana è debole e stanco, minato dall'interno, da quello stesso fuoco amico che, nel racconto, ha ucciso il giovane Eyal.
Se la morte di Eyal altro non è che l'ennesima variante di uno dei miti e dei temi fondanti della letteratura israeliana (l'aqedah, il sacrificio di Isacco e quindi il sacrificio dei figli nel nome della fede dei padri), questo romanzo è permeato dall'ansia di disgregazione personale e collettiva che le quattro generazioni della famiglia Yaari affrontano in maniera diversa. Di fronte all'esempio della generazione testarda dei padri fondatori, i quali, pur vecchi, malati e ormai assistiti da badanti stranieri, si ostinano a far sì che le promesse fatte in gioventù vengano mantenute, le generazioni successive sono proiettate in un'angosciosa ricerca di qualcosa che possa frenare le spinte centrifughe che percorrono la società israeliana: Shuli, la madre di Eyal, è morta in Africa, uccisa dal dolore per la perdita del figlio; Yirmiyahu, il padre di Eyal, ha scelto un esilio ostinato in Tanzania, lontano da Israele, dalla politica e dal mondo ebraico in generale; Moran, cugino di Eyal, non si presenta neanche alla chiamata di riservista per il fastidio di dover dare troppe spiegazioni. Efrat, la bella moglie di Moran, che a fatica riesce a mandare avanti la famiglia, si lancia nella notte delle feste e delle discoteche di Tel Aviv.
È questa stessa Tel Aviv e la famiglia con cui ha un rapporto difficile che la sorella di Moran, Nofar, ha lasciato dopo la morte del cugino prediletto Eyal, per rinchiudersi nella più triste Gerusalemme dove lavora come infermiera. E mentre Daniela, madre di Moran e Nofar, parte per la Tanzania alla ricerca degli ultimi attimi di vita della sorella Shuli, ad Amotz, suo marito, uomo pratico e ingegnere progettista per una ditta di ascensori, rimangono affidati per una settimana (di Hanukah) questa famiglia, le sue più varie necessità quotidiane e un problema da risolvere sul lavoro: gli inspiegabili sibili e ululati che provengono dai vani degli ascensori di un grattacielo a Tel Aviv e che ne terrorizzano gli inquilini, ormai convinti che l'edificio sia popolato dagli spiriti.
Questi ultimi sembrano aver trovato nei vani degli ascensori l'habitat ideale per emergere dalle fondamenta degli edifici, per fuoriuscire da dove si era ritenuto di poterli imprigionare per sempre con una colata di cemento. E se uno dei privilegi della letteratura resta lasciare libero il campo all'interpretazione e alla fantasia del lettore, ciascuno secondo la propria conoscenza e immaginazione, gli spiriti che ululano attraverso le crepe di una colata di cemento imperfetta possono riecheggiare situazioni diverse e tutte significative per la società israeliana e per il suo rapporto con il passato più o meno recente: la distruzione della cultura e della storia palestinese durante e dopo il 1948, o poco più indietro, le tracce di una cultura ebraica inghiottita nella Shoah, o ancora, le voci dei caduti nelle diverse guerre di cui si compone il conflitto israelo-palestinese. Non è un caso che chi si impunta perché il problema dei sibili venga risolto sia il padre di un altro giovane soldato caduto in battaglia; non è un caso che gli spaventosi ululati che turbano gli abitanti del grattacielo passino attraverso ascensori, un elemento tecnico che indirizza la nostra fantasia verso la comunicazione tra aree diverse, volendo anche tra l'inconscio e la mente; e ancora non è un caso che a risolvere il problema sia chiamato il pratico Amotz Yaari con l'aiuto di una persona che, grazie all'orecchio assoluto, è in grado di capire con esatta precisione ciò che ascolta, facoltà che gli altri personaggi del romanzo sembrano aver perduto.
Ma Fuoco amico è soprattutto un "duetto" che ci fa ascoltare questa storia con due voci, una che narra il frenetico scorrere degli avvenimenti in Israele, e un'altra che dalla Tanzania li riflette con calma assoluta, così da far apparire questi due luoghi opposti e complementari: all'inquietudine di Israele si oppone un'Africa rappresentata come calma e statica; alla culla del monoteismo si contrappone la culla dell'umanità; se in Israele si cerca razionalmente il motivo dell'ululare degli spiriti, in Africa se ne riconosce la muta presenza in ogni oggetto; contro l'affannarsi quotidiano degli Yaari in Israele sta il fermo rifiuto di Yirmiyahu, il padre del soldato ucciso dal fuoco amico, che ha scelto di tagliare ogni rapporto con il proprio paese e con il suo passato, con la sua cultura, e soprattutto con l'utilizzo politico che di questi ultimi viene fatto.
Ed è quindi dal ventre dell'Africa che, prevalentemente per bocca di Yirmiyahu e attraverso il suo dialogo con Daniela, emergono le riflessioni di Yehoshua su alcuni dei temi che più gli stanno a cuore: l'identità ebraica, il rapporto tra la diaspora e Israele, chi è ebreo, il conflitto israelo-palestinese, la necessità sempre più urgente di stabilire dei confini che separino israeliani e palestinesi una volta per tutte e il ruolo dello scrittore in tutto questo. Visti dall'Africa, israeliani e palestinesi assomigliano a due animali selvaggi che si puntano con astio, che sono "ipnotizzati l'uno dall'altro", che non trovano il coraggio di allontanarsi e che rispondono solo a quello che sembra essere il proposito per cui sono stati creati: avere la meglio l'uno sull'altro. E se fino a oggi per esempio in Il signor Mani o anche in La sposa liberata Yehoshua aveva sempre sfumato le sue tesi politiche, che aveva invece espresso con più decisione nella saggistica, per esempio già in Elogio della normalità o, più recentemente, in Antisemitismo e sionismo, queste sono ben presenti in Fuoco amico, come se lo scrittore che aveva "rinunciato alla [sua] voce per aprire la (
) scrittura a quelle dei personaggi" si sentisse ormai libero di riappropriarsene.
Yirmiyahu, che come lo scrittore ha settant'anni, sente di avere "il diritto da allontanar[si] da tutto" per poter vivere fuori da "una nazione che è diventata una specie di tornio", un paese estenuato alla ricerca di definizioni per sciogliere l'esasperante rebus dell'identità ebraica, in cui la sofferenza individuale e collettiva viene utilizzata in chiave politica. Ed è infatti Yirmiyahu che dopo aver varcato i confini della linea verde e quelli della legalità in un'investigazione personale per ricostruire la dinamica dell'uccisione del figlio è pronto ad accogliere la spiegazione di una giovane di Tulkarem del perché ai palestinesi non sia rimasto che l'odio nei confronti di Israele e degli ebrei: "Ma voi, anche se siete bravissimi ad intrufolarvi in mezzo agli altri, non vi integrate e non lasciate che gli altri si integrino con voi. (
) Questa non sarà mai la vostra patria se non saprete mescolarvi a tutto ciò che vi si trova".
Da questo quadro a tratti sconfortante emerge il ruolo che Yehoshua sembra aver ritagliato per sé in quanto scrittore, vestendo non a caso i panni del capo di uno scavo archeo-antrolopologico: l'aspirazione solo apparentemente modesta di essere un testimone nella staffetta evolutiva, e forse di essere proprio quell'individuo che, senza neanche accorgersene, riuscirà a trasmettere quel "'qualcosa' con una piccola aggiunta" che porti i suoi discendenti a sentirsi più incuriositi dell'ambiente circostante e più "uman[i] in tutti i sensi". Marcella Simoni
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