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Una solitudine senza ritorno, ricettiva e attenta come nessun'altra ma colma di tantissimi spicchi infranti sui quali è arduo ormai tentare una cucitura, un sollievo, un tenue barlume di speranza. Un uomo distrutto dalla droga e cosciente che nulla per lui può avere scampo in quei salotti malati di nulla e di troppo nei quali finisce per aggirarsi spesso. L'ultimo stadio di un poeta che dice di "non aver mai toccato nulla con mano se non la propria impotenza a stare al mondo", un uomo che intona dentro se stesso l'apologia dell'ombra contro le meraviglie e i canti della vita, dell'amare, in una lucida insensatezza che è come un traguardo finalmente agguantato. Niente felicità, niente soldi, niente risposte, e tuttavia un coro di idee gettate in una meravigliosa capacità riflessiva nonostante la fine incombente che gli respira sul volto. Racconto disperante e disperato reso in una prosa stupenda, racconto di uno scrittore che anche nella scrittura avverte una mediocrità vanesia da cui non può sortire nulla, e dove anche il sentimento più grande e generoso, l'amicizia, sbatte contro il suo io perennemente inquieto, instabile, divorato dai sui stessi spettri: "Vorrei essere amato, per questo mi dico di amare". Una spirale, una discesa verso i più neri recessi di un'esperienza umana, non c'è appoggio in ogni suo passo, non resta che il gesto: "Si vantava di ignorare l'idea di verità, ma si estasiava davanti a una pila di scatole di fiammiferi. Per il primitivo il cibo è l'oggetto che mangerà, per il decadente è un escremento a cui tributa un culto". Alain, il protagonista, è un romantico annoiato che ha capito tutto: il mondo, la vita, quel resistere vano nelle laide condotte eleganti, povere illusioni di chi può permetterselo. Se allora la scelta è fra quel fango e la morte, la direzione arriva più che chiara. Drieu rimarrà un poeta, questo è sicuro, e insieme a Gilles e al sontuoso Diario questo libro ne è la triade insormontabile. Pura luce che scuote.
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