Ci sono libri da leggere d'un fiato, per i quali sarebbe blasfemo pensare a una pausa da dedicare ad altre letture, pagine, vita.
Il Fuoco e il Gelo di Enrico Camanni, non è tra questi, e non stiamo parlando di un demerito. Chi di voi se lo ritroverà tra le mani, sappia dunque che è un libro che può riposare parecchi giorni tra una vostra cura e l'altra, discreto, senza gelosie. È la sua natura e, io credo, un suo pregio. Ad aiutare il lettore a centellinarlo sono i capitoli e "sottocapitoli" in cui è diviso, i personaggi che lo popolano, le loro vite e le parole da loro lasciateci. Storie minuscole di ragazzi-soldato nella cornice maiuscola della Grande guerra, ecco di cosa stiamo parlando: brani di lettere, diari, appunti che tentano di fermare sulla carta l'eroismo, la paura, la fratellanza, il pericolo, ma anche la gioia o l'impensata banalità dei giorni al fronte. A volte per se stessi, a volte per familiari o "morose" lontani. Per rassicurarli, sminuendo il rischio di una morte imminente, o per salutarli, al momento di guardarla da vicino. Un materiale vivo, poroso,
moving direbbero gli inglesi, già molto maneggiato e destinato a esserlo ancor più in questo centenario della Grande guerra. Il pregio di Camanni, tuttavia, è di selezionarlo secondo due criteri non banali: il primo è quello della verticalità, il secondo una faccenda di struttura. Abbiamo della Grande guerra immagini saldamente collocate nel nostro immaginario. Fotogrammi di trincee, gas, uomini che corrono incontro al fuoco delle mitragliatrici, fango, patriottismo, automutilazioni, cecità, eroismo, insubordinazione e il suo castigo. La nascente società di massa che produce il suo primo massacro di massa. A raccontare la parte italiana ci sono poi le pagine di Lussu, monumentali per forza e lucidità, quelle di Stern e Gadda, gli eroi-antieroi di Monicelli, Rosi e tanti altri. Nelle loro storie è chiarissimo come il fronte italo-austriaco aggiunse al comune denominatore della guerra la variabile della montagna con la sua bellezza e le sue asperità. Eppure io, al pari di molti che leggeranno, pensavo a vallate, altopiani, pascoli, boschi. Non alle vette. "Neanche il generale più invasato o il poeta più visionario" nota Camanni nella sua prefazione "avrebbero scelto di combattere in cima alle montagne: la guerra è già abbastanza assurda di per sé", ma nello scontro militare tra l'Italia e l'Austria Ungheria "lo scenario di guerra fu determinato dalla linea surreale che cavalcava le cime della Alpi orientali". Fu così che la guerra raggiunse "i luoghi sacri dell'alpinismo romantico, spingendosi negli scenari delle cartoline turistiche e sui palcoscenici della vertigine: Marmolada, Lagazuoi, Tofane, Cinque Torri, Monte Cristallo, Tre Cime di Lavaredo, Dolomiti di Sesto". Il merito del libro è quello di puntare i riflettori su questa guerra d'alta quota, poco nota, attraverso le parole dei suoi protagonisti. Guide alpine e montanari che allo scoppio della guerra diventarono moneta preziosa da spendere nell'esplorazione e nel presidio delle cime di interesse strategico, ma anche giovani fino a quel momento digiuni di montagna, "colpevoli" al massimo di coltivare per essa una moderata passione. "La Grande guerra" ricorda Camanni "scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura". Che cosa scrissero questi uomini nei diari e nelle lettere destinate ai cari? Cosa produsse in loro questa fusione spettacolare tra bellezza della natura, verticalità e guerra? Enrico Camanni, che frequenta da anni la montagna come alpinista, giornalista, saggista e romanziere, è il primo a parere sorpreso di come "situazioni e ambienti apparentemente ripetitivi" abbiano generato un'insospettabile ricchezza di approcci e di risposte. Dalle parole del giovanissimo sottotenente milanese Mario Fusetti che, alla vigilia di un'azione disperata (scalare di notte il Sass de Stria, presidiato dagli austriaci, era come salire a mani nude le mura di un castello medievale con il nemico ad aspettare sui camminamenti) scrive alla famiglia e all'amata: "Non abbiate lacrime per me: io la morte, la bella morte, l'ho amata
Io ho sognato, nelle peregrinazioni del pensiero, un avvenire di perfezione". Fino alle righe di Arnaldo Berni, giovane di pianura: "Non posso ancora dirvi se ho cambiato in bene o in male, perché mentre al Filone c'era la quota 2931 che rompeva le scatole, qui c'è il Monte Cristallo che fu conquistato proprio in questi giorni dal Plotone Skiatori e che è alto 3500 metri, tutto ghiaccio e roccia a picco sicché solo per andarci bisogna raccomandarsi l'anima. E lassù ci stiamo per turno per tre giorni quando non sono di più perché il tempo non permette di salire né di scendere". Parole di volta in volta avventate, amare, sagge, tenere, e lungimiranti di giovani uomini di cui Camanni ricostruisce le vite, raccontando i bambini, gli studenti, i figli, i fidanzati, gli avvocati e i medici che sono stati prima di ritrovarsi nella stretta della guerra. Purtroppo solo in pochissimi casi l'autore può permettersi il racconto di quello che quei ragazzi saranno dopo. La maggior parte di loro infatti morirà lassù, vittima di valanghe, pallottole, mine, ghiaccio, cadute e freddo. Vite scelte per essere portate sulla pagina, si diceva, con il criterio della verticalità, ma non solo. Anche vite che si sono in qualche modo sfiorate. Amici, compagni d'armi, uomini accomunati da una cima scalata, un inverno passato nello stesso tunnel di ghiaccio, dalla frase di una lettera, la stessa controffensiva, il modo in cui si lascia questo mondo o fortunosamente ci si rimane aggrappati. Questi gli assi cartesiani su cui Camanni colloca i suoi protagonisti. Una scelta coerente che, come dicevo, permette, anzi consiglia, una lettura "spezzata", che lasci tempo alla riflessione. La scrittura di Camanni non è indimenticabile, ma non è necessario che lo sia. Fa anzi di questa sua natura piana e modesta, una forma di rispetto. Si mette al servizio, umilmente, del materiale che si è scelta e, salvo alcuni perdonabili momenti, non cede alla retorica né alla deriva di riflessioni morali. Lascia parlare i suoi ragazzi e le loro storie. Lascia che noi ci si affezioni loro e se ne soffra la perdita e lo spreco E in questo raggiunge il suo scopo: togliere quel pugno di nomi dagli elenchi incisi sui marmi o sulla carte, farne vite di ragazzi che hanno sperato il futuro, temuto il presente, goduto la bellezza e amato. In vetta. Nulla a che vedere con le pagine magnificamente scritte con cui il premio Nobel Kypling, corrispondente dal fronte nel 1917, descriveva i soldati italiani: "Quando il soldato riceve l'ordine di sdraiarsi sulla polvere bianca e di rimanervi lungamente, silenzioso e quieto, mentre le granate passano sul suo capo, egli lo fa con la stessa naturalezza con la quale un inglese avvicina la sedia al suo caminetto". Lì un'altissima scrittura voleva cogliere il generale di un popolo in armi per restituirlo ai lettori americani (con l'occhio elogiativo dell'alleato). Camanni invece passa dall'esercito al soldato e dal soldato all'individuo, perché lettere e diari sono sempre scrittura del singolo animo. Così si esce dal libro con la consapevolezza dello sperpero di vita che quella guerra fu. Sperpero spettacolare, insensato, voluto e in seguito celebrato. Cosa penserebbe ciascuno di noi se qualcuno gli proponesse di piazzare un faro "da 90" su una delle Tre Cime di Lavaredo? Una follia? "Col valido aiuto di una compagnia di alpini e a forza di braccia e corde, fu trasportato a quota 2800 un gruppo completo motore-dinamo e il proiettore del peso circa di 6 quintali a pezzi sulla cima dove fu rimontato" scrive Augusto Carducci, tecnico della Seconda sezione fotoelettrica. Alcuni muoiono nell'impresa, vengono seppelliti, si procede. Il faro viene acceso la notte del 17 agosto 1915, gli alpini grazie alla sua luce avanzano per chilometri nel territorio nemico, poi il tentativo si spegne nel sangue, i riflettori si smorzano, finisce il cinema, si torna a scavare gallerie nella roccia e nel ghiaccio, riprende l'attesa di una fine qualunque. Implacabile. Davide Longo