Ci stiamo avviando verso la conclusione del quinto anno consecutivo dall'inizio della crisi finanziaria ma sono ancora relativamente pochi gli economisti, soprattutto oltre oceano, che sembrano consapevoli della gravità della situazione in cui ancora versa l'economia globale. Ciò è vero, soprattutto, se si pensa agli effetti negativi e di persistenza che essa continua a produrre sul reddito e sull'occupazione di vari strati della popolazione e in varie parti del mondo. La vis polemica che permea questo libro di Paul Krugman (Nobel per l'economia nel 2008) è quindi quanto mai appropriata, avendo il grosso merito di scuotere non solo il mondo accademico, ma anche le autorità di politica economica e l'opinione pubblica in generale, su quello che finora è stato fatto (non molto) e su quello che resta da fare (parecchio), affinché ci si muova nella giusta direzione per tentare di uscire da quella che è ormai, senza più ombra di dubbio, una delle più gravi depressioni dal 1929. Molti lettori ricorderanno come già in un suo precedente libro (Il ritorno dell'economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti, 2009) Krugman avesse messo in guardia l'establishment economico-politico sui rischi sull'economia reale (investimento, reddito e occupazione) connessi ai molti scricchiolii che il capitalismo finanziario aveva cominciato a manifestare. A differenza di molti suoi colleghi sparsi per il mondo, l'autore si dimostra quindi da tempo pienamente consapevole del fatto che non esista nessuna dicotomia, né tanto meno nessuna presunta neutralità, tra sfera finanziaria e sfera reale, per la semplice ragione che il sistema economico globale è, per sua natura, organicamente interdipendente. Quella che all'inizio, e a prima vista, sembrava una crisi limitata al settore dei mutui subprime si è infatti, come anticipato da Krugman e da pochi altri, velocemente diffusa contagiando molti paesi ed esplicitando tutto il suo potenziale dirompente a livello sistemico. In questo suo più recente contributo l'autore ribadisce quindi le responsabilità di molti autorevoli economisti, e dell'allora governatore della Fed Greenspan, nell'aver frettolosamente messo nel dimenticatoio l'analisi e le esortazioni di Keynes o di altri suoi seguaci (come per esempio Hyman Minsky, che già negli anni ottanta aveva elaborato una vera e propria teoria dell'instabilità e delle crisi finanziarie dei sistemi capitalistici avanzati) per sposare acriticamente le rampanti ipotesi dei mercati finanziari efficienti care alla scuola di Chicago e ai suoi adepti. In questo senso Krugman, indirettamente, evoca proprio le ultime osservazioni che Keynes aveva fatto nella sezione conclusiva della Teoria Generale circa la rilevanza, nel bene e nel male, che le idee degli economisti e dei filosofi politici possono avere sulle scelte delle autorità di politica economica. Il libro non si limita però alla querelle teorica rivolta alle truppe politiche e accademiche che da più parti, e per parecchio tempo (riferendosi a questo lungo periodo Krugman parla, addirittura, di economia dei secoli bui), hanno contrastato e avversato il pensiero keynesiano, favorendo il ritorno del laissez-faire nei mercati finanziari e il trionfo del neo-liberismo: esso si spinge infatti a considerare criticamente quello che è stato finora fatto dalla politica economica soprattutto negli Stati Uniti e getta uno sguardo "indulgente", seppur preoccupato, alla situazione europea. Da buon keynesiano, Krugman pone l'accento sulla carenza nella domanda aggregata come causa prima dell'elevata disoccupazione e dell'avvitamento dell'economia globale verso la depressione. Purtroppo i timidi tentativi da parte statunitense, allo scoppio della crisi, di attuare un piano di sostegno pubblico (eccezion fatta per il necessario salvataggio del sistema bancario e finanziario) non sono stati per nulla sufficienti anzi, proprio perché piuttosto limitati rispetto alla gravità della situazione, hanno finito per portare acqua al mulino di chi vedeva in qualsiasi intervento pubblico qualcosa di inutile se non di dannoso, facendo in questo modo arretrare un processo di espansione che andava invece ulteriormente sostenuto. Lo stesso vale purtroppo per la necessaria regolamentazione dei mercati finanziari che è stata per molti versi, e come noto, abortita prima che vedesse la luce, a causa della feroce opposizione da parte dei molti che volevano continuare ad avere le "mani libere". Insomma, se si vuole veramente uscire dalla crisi bisogna, secondo Krugman, cambiare direzione nella politica economica e nella regolazione dei mercati finanziari. Da questo punto di vista, stupisce forse dirlo, l'Europa si sta dimostrando molto più lungimirante di quanto non siano stati gli Stati Uniti, avendo messo recentemente mano a delle riforme davvero incisive anche se forse non ancora pienamente sufficienti. Per quanto riguarda poi la crisi dell'euro-zona, Krugman è stato da sempre scettico sull'integrazione monetaria completa in assenza di una maggiore integrazione politica e fiscale e in presenza di forti asimmetrie tra i singoli paesi. Tutto ciò tuttavia, occorre ricordarlo, era ben noto agli artefici dell'Unione Europea, che vedevano nella moneta unica solo il primo stadio di un processo che avrebbe dovuto estendersi maggiormente ma che ha incontrato, e incontra tuttora, come noto, non poche resistenze. Nonostante il suo scetticismo l'autore è pienamente consapevole che ormai la scelta della moneta unica sia irreversibile e un ritorno al passato (alle vecchie monete nazionali), sarebbe oltremodo estremamente dannoso non solo per la sconfitta politica del progetto europeo, ma soprattutto per i costi di carattere economico che un panico finanziario potrebbe scatenare, ben superiori a quelli che finora si sono prospettati all'orizzonte. Il fatto che gli spreads nei tassi di interesse abbiano, in questi ultimi tempi, calcato la scena della stampa internazionale e dei mezzi di comunicazione mostra come, in assenza di adeguate misure di politica economica, gli attacchi di panico e speculativi siano tutt'altro che eventualità remote. Nell'analisi di Krugman, anche la tanto declamata austerità, da molti sventolata come la panacea a tutti i mali dei paesi cosiddetti "cicale", non è detto sortisca gli effetti sperati; essa deve infatti essere mirata e attuata non con l'accetta (come vorrebbero i paladini della politica economica dei paesi "formica"), ma con un attento e mirato lavoro di bisturi, senza cioè provocare un ulteriore crollo della domanda che frenerebbe ulteriormente le possibilità di crescita impedendo la stabilizzazione del debito sovrano. Qualsiasi spending review dovrebbe essere accompagnata da nuovi progetti di investimento a carattere europeo in settori quali la cultura, l'ambiente, la formazione e la ricerca. Come noto, sulla crescita si parla diffusamente ma, come i diversi interventi di moral suasion hanno palesato, sia gli Stati Uniti di Obama che, per altri versi, la Cina sono giustamente molto preoccupati sugli effetti economici che il rallentamento dell'euro-zona sta provocando a livello internazionale. L'autore non si dimentica poi di ricordare come l'incremento nel debito pubblico registrato negli ultimi anni in diversi paesi europei sia stato provocato, più che dai "peccati" legati agli eccessi di un welfare spendaccione, dall'impellente necessità di salvare i propri sistemi finanziari e bancari divenuti fragili a seguito proprio della crisi americana legata ai mutui e ai suoi derivati, che erano confluiti nei portafogli di innumerevoli istituzioni finanziarie, anche insospettabili. Se peccati ci sono stati, sembra dirci Krugman, nessuno è quindi nelle condizioni per potersi permettere di scagliare la prima pietra. Anche il governo delle istituzioni europee andrebbe progressivamente rivisto e migliorato alla luce dei problemi di democrazia interna che l'attuale crisi ha messo in luce. Problemi che hanno spesso il sapore di scontri tra fazioni che spesso bloccano o provocano l'adozione di misure contraddittorie se non addirittura inadeguate. A tale riguardo, chissà che anche i nostri cugini europei residenti nei paesi "virtuosi" non si rendano presto conto, magari grazie alla lettura di questo libro, che con la globalizzazione economico-finanziaria dei mercati l'adagio "mors tua vita mea", che aveva caratterizzato la politica economica in diversi, e molto infelici, periodi del secolo scorso, debba essere rivisto e velocemente corretto in un più perspicace "mors tua mors mea". E consentano che si agisca, finalmente, di conseguenza. Lino Sau
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