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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2020
Anno edizione: 2019
Di cosa parliamo quando parliamo di futuro? In casa editrice effequ sembrano averlo capito benissimo: il nostro futuro è destinato ad essere molteplicità, contaminazione, conflitto di punti di vista e deve passare necessariamente attraverso il racconto di chi, finora, è rimasto inascoltato.
Future, antologia a cura di Igiaba Scego, trova il suo ponte verso il domani in undici donne italoafricane che raccontano il loro passato per creare un legame con il futuro. Un’operazione necessaria, come la curatrice afferma nella nota iniziale, per reagire all’immobilità dell’Italia nei percorsi di integrazione giuridica, legislativa e amministrativa di fronte ad un mondo multiculturale che è invece in rapida e costante evoluzione.
In un primo momento potremmo essere tentati di dire che Future è la voce di una minoranza: in realtà è sopratutto la voce di persone diversissime tra loro, per età, provenienza, esperienza. Tra le autrici ci sono studentesse poco più che ventenni e docenti universitarie, alcune sono nate in Italia, altre ci sono arrivate da bambine, tutte sperimentano la difficoltà di rendere un passato turbolento e multiforme una ricchezza piuttosto che un freno, un ostacolo per la normalità.
La normalità è la condizione di chi ha il potere di farti sentire sbagliato, di sancirti inferiore, di marchiarti come fallito, scrive Marie Moïse in Abbiamo pianto un fiume di risate, il racconto che apre l’antologia, e infatti quel che lega tra loro tutti i racconti è lo sforzo di trovare un posto in un mondo che rifugge la complessità e la diversità ed è impostato per accogliere solo vite regolari e prevedibili.
La diversità non è solo una questione di pelle, ma anche e soprattutto un bagaglio culturale che, pur naturale per chi lo vive, viene percepito come eccessivo, ingombrante e complicato da chi ci entra in contatto nella quotidianità. È quel che Leila El Houssi racconta ne L’incanto della memoria, rievocando le pressioni ricevute dalla sua insegnante delle elementari perché smettesse di affermare, in classe, di avere cinque nonni: spiegare la poligamia ai bambini è evidentemente molto più difficile che costringere un’alunna a mutilare il suo vissuto.
I racconti delle generazioni più giovani, come Il mio nome di Djarah Kan e Nassan Tenga di Laeticia Ouedraogo, forniscono poi un interessante punto di vista sul rapporto che i giovani nati in Italia da genitori migranti o portati in Europa da bambini hanno con la scelta delle loro famiglie. La migrazione, in questi casi, è un processo subìto e non scelto, i padri e le madri perdono ogni autorità in una società che non riconosce loro alcun valore sociale e politico. I figli si fanno giudici spietati e pietosi insieme della vita dei genitori, nel tentativo di creare un legame con la fantomatica terra d’origine che porti ad una possibile redenzione, perché non c’è nulla di male a tornare indietro per recuperare qualcosa che hai perso o che hai dimenticato [p. 62].
La lingua è una componente essenziale del percorso di ognuna delle scrittrici. La lingua italiana, perfettamente padroneggiata e in certi casi carica di accento regionale, è il primo tassello per riconoscere la propria appartenenza alla comunità. Ne La maratona continua, Addes Tesfamariam racconta di come solo quando si è trasferita in Olanda e il suo accento milanese non le ha più garantito in automatico lo status di italiana ha iniziato a faticare per far comprendere a chi la circondava che era una studentessa fuori sede, non una rifugiata.
La lingua, però, è sopratutto il legame con l’Africa, quello più facile da mantenere a distanza: è così che la protagonista de Il mio nome si riappacifica con le sue origini, perché non c’è futuro in un futuro dove si fa di tutto per togliere potere alla parola che crea la sostanza. [p. 63].
Infine, la lingua è un ottimo strumento per escludere, ferire, mettere a disagio: è quello su cui riflette Wii in Che ne sarà dei biscotti. Domande come Da dove vieni, innocue per chi ha un percorso di vita lineare e sereno, possono essere disturbanti e strane come la domanda In che tempo vivi. Perché è, nonostante ciò, una domanda che ci si sente porre così spesso?
Scrive l’autrice:
Per meglio identificare il soggetto interlocutore abbiamo bisogno di agire con delle domande specifiche e convenzionali, che non solo sono prestabilite e dettate da un’idea arcaica di società, che non riconosce gli effetti delle migrazioni, della globalizzazione e della tecnologia, ma sancisce inevitabilmente chi è il soggetto che agisce e chi è quello che subisce l’atto linguistico. Perché continuiamo a non saper fare le giuste domande? [p. 172]
Ripartire verso il futuro con le giuste domande sulla punta della lingua, pronti e preparati ad accogliere la complessità in ogni sua forma: questo è il buon proposito che rimane dopo aver chiuso l’ultima pagina di Future, un progetto unico nel suo genere che apre mondi e prospettive.
di Loreta Minutilli
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