L'ultimo libro scritto in Germania da Walter Benjamin fu Infanzia berlinese intorno al millenovecento, considerato, forse, il suo testo più politico: si tratta di una costellazione di ricordi dei suoi primi anni di vita, che nella filigrana della memoria individuale lascia affiorare l'infanzia della nazione tedesca, e mostra l'origine segreta del male radicale verso la quale stava rotolando la Germania del 1932. Quel piccolo uomo gobbo, che da subito fissa lo sguardo del futuro autore delle Tesi sul concetto di storia, è al tempo stesso una delle immagini che l'esperienza sedimenta in un bambino della borghesia ebraica berlinese, e l'allegoria di quel rimbombo di stivali risuona nella genesi della nazione: nella repressione militare dei moti del 1848. Lo stesso senso del narrare benjaminiano anima, un secolo dopo, i ricordi di fanciullezza in uno di quei borghi "che non si capiva bene se era del Nord della Lombardia o del Sud della Svizzera" o, per meglio dire, al confine tra i luoghi manzoniani del lago di Como e l'ininterrotta catena di paesini dai nomi per lo più desinenti in "ate", che andranno a costituire quella fabbrica diffusa, futura metropoli, nella quale si materializzarono il boom economico e il modello lombardo. Siamo nel punto di intersezione tra due direttrici della storia d'Italia, una diacronico-aurorale e una sincronico-topografica, là dove si toccano l'origine (o, se si preferisce, il mito fondatore) e l'ingresso (o forse la sussunzione) dell'Italia nel capitalismo industriale, nelle sue contraddizioni e nei suoi conflitti. Immagini sedimentate in un'infanzia lombarda dunque: ma non si creda che questi ricordi siano qualcosa di immateriale o impalpabile. Al contrario, hanno una materialità percettiva che fa da sponda alla fisicità della lingua: allievo e complice di Balestrini, Bianchi impronta il racconto all'oralità cavando via quasi tutta la punteggiatura, per ottenere una lingua da recitare rivolti a un pubblico piuttosto che un monologo interiore. Come una buona zuppa, anche questa lingua si fa spessa via via che procede. Le stesse ricette sparse nel racconto hanno una loro sensorialità e fisicità: gesti, sapori, aromi, ma anche pratiche, abitudini e comportamenti: come accade in un'altra, quasi parallela raccolta di memorie, scritte "con i piedi nel lago e la testa fra le nuvole" e ambientate proprio su "quel ramo del lago di Como", il ramo lecchese (Cecco Bellosi, Con i piedi nel lago, Milieu, 2013). Pasolini, nel suo seminale Intervento sul discorso libero indiretto, paragonava l'indiretto libero incoativo (quale è l'incipit di Leporello nel Don Giovanni: "Notte e giorno faticar / per chi nulla sa gradir. / Piova e vento sopportar, / mangiar male e mal dormir") ai testi di cucina ("Prendete due uova...") come linguaggio che esprime regole "di un'assolutezza tradizionale e in qualche modo istituzionalizzata di fatto", che possono sì esprimere un senso di coralità ed epicità, ma attraverso azioni "fatte nei secoli, passati e futuri, da facitori che sono sempre gli stessi". E che (lo si vede bene oggi, nella moda mainstream dei libri e dei programmi culinari, nei quali il cibo compare sui tavoli senza che sia dato sapere come c'è arrivato, chi lo consumerà o quale storia ha la sua ricetta) sfocia o in un'apologia neo-folk dei bei tempi andati che non dovrebbero mai mutare, o nell'isterica prescrittività dei vari Master Chef. All'opposto, le pagine di cucina di Bianchi e Bellosi sono sempre incastonate all'interno di un contesto sociale come espressione di un soggetto socialmente definito. La cucina diventa così il banco di prova per saggiare una lingua che racconta il passato di un soggetto non per gusto antiquario, ma per mostrare le sottili incrinature che rendevano possibile il suo divenire altro già prima dell'inizio del 1968, davanti al quale ambedue i libri si arrestano. Anche gli ambienti rammemorati sono, più che luoghi dell'anima, spazi da attraversare, boschi e laghi da riempire con le vite, i giochi e le bande, le opere e i giorni. O da raccontare per il vuoto creato da chi, a quell'infanzia, ha sottratto gli spazi e i luoghi del comune con il progressivo incedere di muretti, recinzioni e cancellate. Il boom edilizio insomma (che produrrà il mito del "popolo dalle mani callose"), o la cementificazione: "Tutti facevano il cemento e cementavano dappertutto (...). Ai lati dei cancelli hanno alzato dei pilastri e sopra hanno messo i leoni di cemento le aquile di cemento i vasi e le palle di cemento. Finiti questi lavori sono cominciati i sottoscavi delle case per fare le cantine per aumentare le volumetrie delle case che così acquistavano più valore". Così accade che, in una scena apocalittica, il grande incendio porti via il bosco, e all'incendio seguano i reticolati di filo spinato, i camion e le ruspe, e che le ville siano protette dalle recinzioni in cemento armato e dalle cancellate di ferro, dai cartelli di proprietà privata da quelli di divieto d'accesso: "Senza che ce ne siamo resi conto ci hanno portato via il bosco e l'hanno distrutto tutto", come distrutto è il grande castagno che deve morire per far spazio a un palazzo. Anche l'ambiente lavorativo subisce una brusca trasformazione, a opera di un diverso genere di devastazione e incendio; la fabbrica che gli abitanti avevano ricostruito dopo la guerra, lavorando duramente nell'illusione che ci fossero padroni buoni, chiude: c'è "la congiuntura", dicono i nuovi padroni, la produzione va riconvertita, gli operai vanno convinti a costruire officine e fabbrichette, o a comprare macchinari da installare in garage per lavorare a cottimo, perché bisogna costruire "l'indotto". Congiuntura, indotto: il giovane Bianchi comincia a comprendere il potere delle parole di risignificare cose e persone all'interno dei recinti di senso tracciati dal potere. È così che, mentre il borgo diventa una fabbrica diffusa, si forma l'operaio-massa: la "rude razza pagana" che calpesterà, nel decennio 1968-1977, le strade e le piazze di una metropoli estesa che non ha più centro né periferia. E però, in quell'andar nei boschi dei giovani adolescenti, nell'allestire il localino con mezzi di fortuna (il sedile di un'auto rottamata, un jukebox costruito in casa da quello bravo in elettrotecnica, i dischi degli anni sessanta, nelle notti da contrabbandiere che rimandano ancora al libro di Bellosi, che degli sfrosatori del lago di Lecco è cantore), si esprime un'istintiva e un po' rurale avversione verso l'autorità, che ancora non trova espressione compiuta: Bianchi e Bellosi alludono ai limiti e alle incompiutezze di uno stato nazionale calato dall'alto, rispetto al quale la moltitudine di soggetti che non sentono appartenenza alla nazione si sostanzia di relazioni, affetti, passioni reciproche, in un vivere nel comune che è tutt'altra cosa dall'essere "un volgo disperso che nome non ha". Come narratore, Bianchi cerca di restituire alla loro origine quei luoghi, quelle figure umane, quelle relazioni che la storia ha risignificato in altro modo: non fa altra cosa come editore, quando restituisce i documenti di un'intera generazione nella quale non c'erano mostri né marziani, e che altri hanno condannato a cent'anni di solitudine, o relegato nel recinto del romanzo criminale. Molte parole serviranno per raccontare la rivolta che viene; a Bianchi, nel momento esatto in cui il romanzo si chiude, alle soglie del Sessantotto, ne bastano tre: "Allora mi incazzo". Girolamo De Michele
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