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Tutte le storie d'intrigo sono garbugli, matasse da sbrogliare lungo un filo che ci porta alla soluzione e comprensione dei fatti, rimescolati dal vento degli accadimenti sulla piatta superificie dell'apparente, ma ben ancorati al di sotto, sul fondo incontaminato del vero. Perché l'orrenda verità di un delitto permane intatta, oltre l'oblio che l'ha ricoperta. Nel nostro caso, il filo del vero che dipana la matassa è la voce portante dello stile dell'autore, una voce lirica e ritmata, che regge e sostiene il romanzo fin dalla prima scena, la passeggiata del protagonista, l'avvocato Alfieri, tra le tombe del Cimitero Monumentale di Torino, tra la neve che indugia a fine inverno e copre parzialmente la tomba di una diva luminosa degli anni Trenta, Isa Bluette. Immagine emblematica dell'opera, in equilibrio tra ciò che sembra e ciò che fu, tra passato e presente (una fine d'anno scolastico in una classe liceale del 1936 e il Festival di Sanremo del 1973), tra la zona confortevole di un amore maturo e il rimpianto di un amore giovanile mai dimenticato, che il profumo dei limoni portato dal vento della primavera rivierasca ravviva, in quell'alternarsi di luoghi (Torino e Sanremo) dei quali l'autore sa cogliere e regalarci i differenti sapori, le atmosfere, le peculiarità di un'umanità varia e colorata. Il pretesto della trama (una lettera anonima spinge Alfieri, occasionalmente a Sanremo, ad indagare su una morte misteriosa) offre così all'autore l'opportunità di dipingere un affresco più ampio, di osservare le dinamiche dei sentimenti e delle vite dei protagonisti e dei comprimari, sempre calati con precisione nei contesti storici di riferimento, di coglierne gli abissi aberranti, ma anche gli aspetti minimi della personalità e i difetti con una punta d'ironia, che li rende, in definitiva, non dissimili da noi.
Recensioni
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