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Si chiamava "Saint al-Arab", la voce degli arabi, e allora sembrò una rivoluzione. Era stato Nasser a crearla nel 1953, trasformando la radio nel più potente dei mezzi di propaganda: nessuno nel mondo arabo ci aveva pensato, fino ad allora. Dal Maghreb allo stretto di Hormuz, milioni di arabi ascoltavano e credevano alla voce di Ahmed Said. Le invettive contro Israele, le condanne all'America, il linciaggio dei regimi arabi nemici. La gente ascoltava e credeva: fino alla guerra del 1967, quando la "Voce" annunciò che l'esercito egiziano era in marcia su Tel Aviv. Pochi giorni più tardi tutti scoprirono che in realtà erano gli israeliani a essere già arrivati a Suez. Poi, venne al-Jazeera.
Non c'è altro nella storia del giornalismo arabo: la "Voce" negli anni cinquanta e al-Jazeera quarantacinque anni più tardi. Prima e in mezzo vi sono soprattutto giornali e televisioni di regime, informazione piatta e pochi tentativi coraggiosi di aprire le menti della società araba. Leggere qualcosa d'interessante non è mai stato facile in Medioriente, anche se il Corano inizia con un'imposizione: "Iqra", leggi! Di questo mondo che dice molto del potere e delle società arabe, Augusto Valeriani ha fatto per Carocci un breve ma interessante compendio. S'incomincia con i primi aneliti liberali del XIX secolo e si arriva alla grande corsa scatenata da al-Jazeera fra le tv locali per la conquista dell'etere. Alla Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna, Valeriani è allievo di Marcella Emiliani, dalla quale ha imparato rigore e curiosità.
I pochi momenti di creatività giornalistica, quelli che hanno dato vita alle più importanti iniziative nel mondo arabo, hanno sempre un punto di partenza: Beirut. Non è casuale. Il Libano e la sua capitale sono da sempre - perfino oggi - il luogo più aperto del mondo arabo. Anche nella devastazione della guerra civile, il giornalismo locale ha sempre saputo produrre testate e cronisti di rispetto. Di questo serbatoio è in gran parte figlia l'unica vera stampa indipendente araba: quella prodotta all'estero, soprattutto a Londra, e che grazie alla lingua comune è diffusa in tutto il Medioriente. In "al-Sharq al-Awsat", "al-Hayat" e "al-Quds al-Arabi", i giornali più importanti che si rivolgono a un pubblico panarabo, i lettori trovano quello che non possono leggere nella loro stampa nazionale.
Ma è evidentemente ad al-Jazeera (meglio, alla "Rivoluzione di al-Jazeera") che Valeriani dedica gran parte del suo libro. Nel 1996 un gruppo di giornalisti nati nel servizio arabo della Bbc viene reclutato da Orbit per creare il primo network arabo che faccia concorrenza alla Cnn. Orbit è finanziato dai sauditi, i quali hanno il denaro ma non la cultura di libertà necessaria all'impresa. I giornalisti si dimettono in massa e vengono reclutati dall'emiro del Qatar. Hamad bin Khalifa al-Thani ha appena esautorato il padre, contrario a ogni riforma, e chiuso il ministero dell'Informazione. Questo curioso e visionario emiro decide di aprire la prima tv libera di notizie, 24 ore su 24: la penisola, cioè al-Jazeera. Il Qatar è una penisola.
Oggi tutti conoscono al-Jazeera. La guerra del Golfo, che ha raccontato al mondo in arabo (come nel '91 la Cnn aveva raccontato in inglese il primo conflitto), ha sollevato consensi e critiche. Per molti in Occidente è considerata parte del conflitto fra civiltà. In realtà, spiega Valeriani, la forza della sua informazione "è proprio nella capacità di creare un prodotto informativo professionale, che tenga conto della sensibilità delle popolazioni arabe, della loro necessità di mantenere un ponte emotivo con Paesi nei quali si scontrano arabi con non arabi e, allo stesso tempo, denunci per la prima volta tutte le menzogne dei leader".
Ugo Traballi
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