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Le prime pagine del romanzo
Riley Purefoy non pensava molto alla guerra. Non ce n’era bisogno: era parte di lui. Se altri la menzionavano...
...ma in effetti non lo facevano: né i vecchi soldati come lui, la maggior parte dei quali si era ben presto resa conto che nessuno aveva voglia di ascoltare quel che avevano da dire, né i civili, che si allontanavano con la stessa velocità con cui i soldati ammutolivano.
Di tanto in tanto si insinuavano in lui frasi e battute. A volte sentiva un sapore in bocca, indefinito. C’era un’immagine persistente di pezzetti di polmone gassato sputati fuori a colpi di tosse sul pavimento di un’ambulanza, che portava con sé la necessità di rimanere immobile per un attimo. C’erano ancora dei momenti, un anno e mezzo dopo essersi allontanato barcollando dal campo di battaglia, nei quali il silenzio lo confondeva come la terraferma confonde le gambe di un marinaio. C’era la voce di Peter Locke, che diceva: «Allora il comando passa a te, vecchio mio». Quell’ultima frase gli era rimasta impressa in modo indelebile, perché sapeva che, per quanto sembrasse improbabile, era ancora in gran parte vero. Era lui al comando.
Malgrado la menomazione fisica, Riley era ben dotato: un giovane robusto, dagli occhi chiari. Così, con il passare dei mesi, quando gli capitava di pensare alla guerra, pensava più a quella futura, e a come impedirla; ai bambini futuri, e a come proteggerli, o al futuro dei feriti come lui, e a come migliorarlo. Vedeva le persone che lo guardavano con compassione e diffidenza. Registrava il piccolo (o grande) sussulto involontario provocato dalla sua faccia piena di cicatrici. Quando un tassista si allontanava perché non riusciva a capire cosa stava dicendo, Riley ce la metteva tutta per provare comprensione per l’imbarazzo dell’uomo, soffocando l’impeto di rabbia per quelle continue umiliazioni.
Si rendeva conto perfettamente che non erano molte le persone convinte che avrebbe combinato qualcosa nella vita, poverino. Ma se c’era un insegnamento che aveva tratto dall’esperienza di essere fatto a pezzi e poi rattoppato, era questo: ora è il momento buono per fare quello che vuoi.
Riley Purefoy e Nadine Waveney si sposarono sotto una bellissima ondata effimera di fioritura londinese che coronava una città che era stata in guerra per così tanto tempo da non sapere più come comportarsi. Sulla parete dell’ufficio anagrafe un cartello recitava: NIENTE CORIANDOLI AI SENSI DELLE NORME PER LA PUBBLICA SICUREZZA. Ma la tempesta di fiori volanti non vi fece caso, con i suoi mulinelli che vorticavano nella brezza primaverile e le folli distese rosa confetto che si accumulavano contro i cordoli umidi dei marciapiedi di Chelsea. Nadine, ancora così magra da non avere il ciclo mestruale, indossava la canottiera di Riley sotto l’abito da sposa fuori moda di Julia Locke, di prima della guerra, ripreso per stringerlo. Riley era in uniforme. Peter Locke, l’ex ufficiale in comando di Riley, cortese e quasi sobrio, era il testimone dello sposo. La cugina di Peter, Rose, era la damigella d’onore, in guanti bianchi, e il figlio di Peter, Tom, simbolo dell’innocenza e delle possibilità con i suoi capelli biondi, era il paggetto. Non c’era nessun altro. La madre di Tom, Julia, aveva raccolto di buon’ora dei gigli bianchi e li aveva affidati a Rose perché li portasse da Locke Hill, ma lei non era andata alla cerimonia. Non stava abbastanza bene, o forse era solo imbarazzata. Erano passati solo alcuni mesi dalla sua crisi. Erano passati solo alcuni mesi da tutto.
Dopo andarono al pub dall’altra parte della strada, dove scoprirono che Peter aveva depositato in precedenza due bottiglie di Krug ’04, acquistate non volle dire come. Rose portava il tailleur di tweed verde scuro che aveva indossato al matrimonio di Peter e Julia (anche se pensò bene di non dirlo), e ammise di provare un brivido di vergogna per il fatto di trovarsi in un pub. Fu una bella cerimonia e una giornata felice. Non si fece cenno ai timori che qualcuno poteva avere per il futuro di quel matrimonio, per il suo inizio precipitoso, per le anime malconce dello sposo e della sposa. Era l’occasione buona per non parlarne. Nessuno voleva ricordare niente agli altri. Come se qualcuno avesse dimenticato.