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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2016
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Coinvolgente e ben scritto. Tiene alta l'attenzione raccontando affianco alle avventure di surf pezzi di vite e di culture diverse, dando un ampio sguardo sulla trasformazione del mondo durante quegli anni.
il mare è vita
ho piacevolmente letto questo libro poco per volta, avendo l'impressione che fosse un compagno a parlarmi. la sua conclusione devo dire che lascia un po' di amarezza e malinconia, piuttosto che la "presa" della parte selvaggia della vita diventa il canto del cigno della giovinezza. le descrizioni delle surfate sono un po' ripetitive e nelle rare occasioni in cui filosofeggia non ha lo stesso valore. rivedibile la traduzione per l'eccesso di anglicismi anche laddove inutili.
Recensioni
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A metà strada tra il Bildungsroman e il romanzo d’avventura d’altri tempi, Giorni Selvaggi è soprattutto il racconto di un’ossessione, un memoir intellettuale sul surf, la testimonianza sincera di come questo sport possa cambiarti la vita: un diario appassionante che immerge il lettore in un mondo sconosciuto, pericoloso, da cavalcare fino all’ultima onda.
William Finnegan, editorialista del New Yorker, è un celebre giornalista che ha realizzato importanti reportage di guerra da ogni continente; ma questa è soprattutto la storia di Bill, un bambino che a dieci anni inizia a surfare le onde della California per gioco, fino a quando non si trasferisce con la sua famiglia alle Hawaii: è lì che quel passatempo si trasforma nella passione cui dedicare una vita intera.
Con il passare degli anni, Bill non smette mai di inseguire le onde in giro per il mondo vivendo ogni genere di avventura, fino a quando non capisce che è giunto il momento di tornare a casa e lì avrà inizio la sua collaborazione con il New Yorker. Da qui la storia di Bill diventa quella di William il reporter, il quale raggiungerà fama internazionale proprio grazie a un leggendario articolo dedicato al mondo del surf.
Recensione di Vito Corciulo
A cura del Master in Editoria dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori
Ci sono prospettive del mondo che la maggior parte di noi non potrà mai avere, che sono riservate a pochi. Una di queste è la visione della terra, anzi delle terre (spiagge, dune, promontori, scogliere, ponti, porti e villaggi di tutti e cinque i continenti) dalla cresta di un’onda mentre sta per frangersi. William Finnegan è uno scrittore eccelso e un surfista sfrontato: leggere come le due cose si uniscono insieme è emozionante, commovente, illuminante, totalizzante. Il suo memoir (Premio Pulitzer 2016) è uno di quei libri che cambiano la vita, senza che per forza dall’altra parte della pagina ci sia un patito del surf. È richiesta solo una cosa, infatti, per apprezzare questo testo al meglio: sapere cos’è la passione.
Marta
Premessa: questo memoir parla soprattutto di onde. Come si curvano, spingono i corpi, cambiano odore e colore da un luogo a un altro del mondo, dove nascono, come muoiono. Un po’ come per i fiocchi di neve, non ne esistono due uguali. Sopra queste onde galleggia un uomo, in compagnia della sua fidata tavola. La sua vita è stata modellata da queste onde.
Un po’ brutalmente, Giorni selvaggi si può riassumere così. Quindi: se odiate il mare, e i surfisti come categoria umana – come tutti i cliché, possono essere irritanti, o peggio ridicoli – e preferite piuttosto i titanismi montanari o i vapori lacustri, è meglio se mettete giù subito questo libro e correte a prendere un Mauro Corona d.o.p., o un romanzo di Andrea Vitali.
Ma se ricordate di esservi esaltati quando, da piccoli, avete visto per la prima volta Un mercoledì da leoni o Point Break – due film ambientati in quella società a parte che è l’ambiente dei surfisti, e che i veri surfisti peraltro trovano ridicoli, nella loro inesattezza – e di essere rimasti turbati da quel mix di esotismo/cameratismo/libertà/pelle dorata, mèche naturali/spensieratezza/incoscienza/ generale figaggine, allora Giorni selvaggi è il libro perfetto per la vostra estate.
È stato scritto da una persona che nella vita ha fatto anche altro, oltre a inseguire le onde: autore di cinque libri, staff writer per il New Yorker da molti anni, William Finnegan ha realizzato celebri reportage da ogni continente, occupandosi di guerra civile (in Sudan e Somalia), razzismo (in Sudafrica), povertà (negli Usa), crimine organizzato (in Messico). E prima ancora, più giovane, per sopravvivere ai tempi dei suoi vagabondaggi dietro alle onde, è stato lavapiatti in Australia, frenatore di treni in California, insegnante d’inglese in un ghetto nero di Città del Capo. Con Giorni selvaggi quest’anno ha vinto il Premio Pulitzer per l’autobiografia.
Per i profani, il surf è semplicemente uno sport. Per chi lo pratica, è molto di più: un’arte, una dipendenza, un amore difficile da tradire, che diventa sempre più impegnativo e più pericoloso con il procedere dell’esperienza accumulata. Per il 12enne William, tutto nasce da un evento che per un bambino di solito è traumatico: un trasferimento, e tutto ciò che segue in termini di sradicamento, solitudine ecc. Invece qui è proprio il contrario: per un amante del surf, le Hawaii – il luogo in cui suo padre, produttore tv, ha trovato lavoro – rappresentano la meta in cui prima o poi è obbligatorio andare in pellegrinaggio, come La Mecca per un musulmano o Amsterdam per un fan della marijuana (oggi è il Colorado). “Alla sola idea di vivere alle Hawaii io ero fuori di me dall’eccitazione. Volente o nolente, qualsiasi surfista, qualsiasi lettore di riviste di surf [...] fantastica sempre di trascorrere la sua vita alle Hawaii. E adesso io ero lì, a camminare sulla vera sabbia hawaiana (farinosa, dall’odore sconosciuto), ad assaggiare l’acqua di mare hawaiana (tiepida, dall’odore sconosciuto) e a remare verso le onde hawaiane (piccole, scure, sospinte dal vento). Niente era come me l’ero immaginato”.
I giorni del giovane William sono scanditi dalle lunghe sessioni di surf, prima e dopo la scuola. Ma per un surfista, diventare adulto è qualcosa che avviene lontano dall’acqua: l’apparente improduttività del solcare le onde con una tavola – le lunghe attese, i fugaci, ma potentissimi, momenti in piedi sulla tavola – si concilia poco con le crescenti responsabilità che la vita reale esige: trovare un lavoro, mettere radici in un posto preciso, formare una famiglia. Per seguire le onde bisogna rinunciare a tutto il resto, ed è esattamente quello che fa William, quando, qualche anno dopo – ormai un vero barbaro del surf (il titolo originale è Barbarian Days) – rincorre le onde attraverso mezzo Pacifico, dall’Australia al Madagascar passando per le Figi, Sumatra e Samoa. E le affronta carico di abbondanti dosi di LSD, con i prevedibili rischi e le intense visioni di assoluto che questo binomio – surf e psichedelia – sono in grado ispirare: “Lottai per farmi strada tra la schiuma, contento di avere qualcosa da fare. L’acqua al suo stadio molecolare sembrava meno interessante di prima. [...] Il colore era di un grigio-bianco tenue finché non si alzava un’onda, dopodiché sembrava che si accendessero dei riflettori turchese che illuminavano dall’interno le viscere dell’onda. [...] Sollevai lo sguardo e vidi in alto un soffitto argenteo e spumeggiante. Sembrava che stessi cavalcando un cuscino d’aria. Poi le luci si spensero”.
C’è un rapporto di causa ed effetto da trovare, tra il coming of age sull’acqua che occupa gran parte di questo libro, l’inevitabile ritorno a casa e la scelta di diventare uno scrittore specializzato nel descrivere la realtà nei suoi aspetti più oscuri? Forse è stata proprio l’abitudine ad andare incontro al pericolo (sotto forma di onde), a spingere Finnegan verso le zone del mondo più turbolente – osservare la guerra è un’attività che consuma il fisico e la mente, ma da cui è difficile staccarsi per tornare alla normalità, come racconta Michael Ware nel recente Only the Dead, documentario HBO sui suoi sette tormentosi anni da reporter in Iraq. Se il surf è una dipendenza, come candidamente ammette l’autore di questo libro, qualcosa deve avere a che fare con il tentativo di recuperare quell’intensissimo, irripetibile high iniziale.
O forse si tratta di altro. Forse il surf è soltanto un modo (più cool di altri) per provare sulla pelle il brivido della libertà. Ma Giorni selvaggi ci lascia con una piccola certezza: a volte, il modo migliore per capire il mondo è proprio quello di perdere tempo. Voto 4/5
Recensione di Mario Bonaldi
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