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Una biografia apprezzabile ma poco approfondita dal punto di vista più importante: quello filosofico. Aiuta comunque ad inquadrare obiettivamente un intellettuale di rilievo indiscutibile.
La figura di Gentile ha rappresentato e rappresenta tuttora un vero e proprio tabù per l’intellighentsia italiana. Non è possibile incensarla nei salotti mondani né tanto meno nei convegni accademici per via di quella strana e ostinata adesione al partito dei vinti della storia, coloro che scelsero di stare dalla parte del male assoluto; né è possibile far scendere su di essa l’oblio visto il peso che ha avuto e ha tuttora sugli sviluppi della cultura e della società italiana ed europea. Il libro in questione ha il merito non trascurabile di trattare il problema Gentile senza partigianeria e villaneria di sorta, ma senza neanche quei pruriti nostalgico-revisionisti, tipici di quegli storici che si sentono novelli Cristoforo Colombo nello scoprire territori che a loro dire non sono mai stati percorsi prima. L’autore sfugge inoltre alla trappola di consegnare alle stampe un libro su Gentile, incentrando il suo studio per l’ennesima volta sulla polemica aspra, talvolta malcelata e indiretta, talvolta rissosa e frontale, con Croce. Polemica, è bene ricordarlo, nata per mere posizioni di potere ed egemonia culturale. Ciò che invece può interessare il lettore non aduso a semplificazioni di comodo e non recettivo riguardo a formule da bigino copribuchi è ben altro. Innanzitutto il Gentile “studente diciottenne” (p. 7) che parte dalla natia Sicilia per andare a studiare alla Normale di Pisa. La scoperta di un nuovo mondo più aperto e fecondo dell’ambiente in cui è nato, una scoperta che non gli fa dimenticare il suo “sicilianismo” (p. 40), humus fertile per i suoi studi sul folclore, la cui importanza per una certa Italia contadina e marginale verrà in seguito evidenziata da Gramsci. Il debito filosofico che il giovane Gentile riconosce al suo maestro Donato Jaia, campione inascoltato dell’idealismo italiano, come quello nei riguardi “dell’ebreo D’Ancona” (p. 22) sul tema del metodo storico e sulla “storia letteraria” intesa “come storia civile” (p. 21), che infiammerà il cuore e la mente del filosofo di Castelvetrano.
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