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Mi dispiace doverlo ammettere, ma ho provato molta noia nel leggere questo breve racconto e attribuisco ciò a due fattori principali. Innanzitutto, trattandosi di un racconto gotico pubblicato per la prima volta nel 1898, ha una capacità di suscitare un'intensa emozione e una totale partecipazione (pathos) davvero molto scarsa in un uomo del XXI secolo: in parole povere, è invecchiato male. In secondo luogo, da esso sono state tratte davvero così tante pellicole cinematografiche ("Suspense" del 1961, "Improvvisamente un uomo nella notte" del 1972, "Presenze" del 1992, "The Others" del 2001, ecc.) che la sua trama mi era piuttosto nota: in pratica, la visione dei film mi hanno tolto il gusto della lettura. Tornando all'opera, essa ha suscitato in me una riflessione: lo scrittore H. James (1843-1916), ateo e ribelle ad ogni religione rivelata, finisce comunque per restare affascinato (come tanti suoi coetanei) dall'ondata di spiritismo e occultismo che si diffonde a cavallo tra fine ottocento e inizi novecento, in tutto l'Occidente. Appare ancora una volta questa contraddizione tipica di quel periodo positivista: il rifiuto della religione (soprattutto cristiana e cattolica), spesso accusata di superstizione, e l'infatuazione per medium e tavolini che permea tanti ambienti intellettuali e razionalisti. Credo che Gilbert Keith Chesterton avesse proprio ragione quando affermava che "chi smette di credere in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto".
Un classico intramontabile, al di là della serie Netflix che ne ha preso ispirazione, a mio modesto parere piuttosto male, che non ha bisogno di alcuna presentazione. Una delle migliori storie di fantasmi mai scritta con un pathos e una suspense che avrebbe fatto scuola per tutto l'Ottocento a venire. Intramontabile ed emozionante: insomma, assolutamente imperdibile!
Questa storia gotica mi ha inquietata dall'inizio alla fine, in un climax di emozioni e sensazioni stranianti e angoscianti rese benissimo dall'autore. L'inquietudine si insinua dentro di noi pagina dopo pagina, contrapponendosi appieno all'atmosfera di pace che sembra esserci nella villa in cui avvengono i fatti raccontati. Unica pecca: lo stile di scrittura, a mio avviso troppo ridondante e a tratti ostico. Il finale enigmatico e spiazzante lascia aperte molte domande: avrei voluto maggiori risposte ma, anche così, con porte ed enigmi lasciati spalancati, ha un suo perché. Ad ognuno la sua interpretazione.
Recensioni
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Chissà se nel 1898, quando The Turn of the Screw uscì a puntate sul "Collier's Weekly", Henry James immaginava che la sua storia avrebbe visto allargarsi lo "hushed little circle" che aveva radunato intorno al fuoco del suo mistero, fino a diventare un classico. Oggi come allora, la domande che instilla nei suoi lettori sono le stesse. Sono davvero fantasmi o solo proiezioni della mente le figure che la protagonista della storia vede aggirarsi nella tenuta di Bly per prendere con sé, in un crescendo di angoscia, le anime dei due piccoli orfani Miles e Flora alla cui educazione è stata preposta? La storia va intesa cioè come un'allegoria della lotta tra il bene e il male oppure come indagine dell'inconscio? Nell'introduzione, passando in rassegna un secolo di critica jamesiana, Giovanna Mochi, curatrice e traduttrice di questa nuova edizione con testo a fronte, invita a non soffocare la bellezza del racconto nelle maglie di un'interpretazione troppo stringente. Anche se, come lo stesso James ha sostenuto nella prefazione della "New York Edition", si configura come pezzo di bravura pura e semplice, The Turn of the Screw non volge infatti le sue energie verso un unico scopo. Al contrario, implica sempre una partita a carte coperte, che adombra i suoi segreti senza mostrarli. In questi blanks di senso, spetta al lettore cercare la cifra nel tappeto della storia: non però in una rivelazione che ne chiarisca una volta per tutte il significato, ma nella seducente ambiguità dei suoi livelli di realtà. La letteratura è per James un gioco cui, nello stesso tempo, credere e non credere. Verità e finzione non sono del resto le categorie più adatte quando si hanno davanti leggendarie creature fatate, che chiamano le proprie vittime per vederle danzare sotto la luna. Luigi Marfè
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