L'Italia ha offerto senza dubbio, a più riprese nel corso della storia, un osservatorio privilegiato per indagare gli intrecci tra giustizia e politica. Lo è stata, in maniera eminente, nella transizione dal fascismo alla democrazia e lo è rimasta per tutto il settantennio repubblicano che si avvicina al compimento. Un indicatore di questa temperie fu, già nel 1945, la tempestiva pubblicazione della traduzione, presso l'editore Chiantore di Torino, di un saggio del giovane Guizot, Des conspirations et de la justice politique, uno dei testi classici imprescindibili per chiunque voglia ragionare "della giustizia sul punto di cadere sotto il giogo della politica" (e va notato che l'opera più importante apparsa sul tema nel dopoguerra, Political Justice. The Use of Legal Procedure for Political Ends di Otto Kirchheimer ‒ in italiano è disponibile solo la traduzione, a cura di Roberto Racinaro, della cellula germinale di questo libro ‒, non trascurasse di mettere in luce l'apporto di Guizot all'analisi del fenomeno nella stagione dell'avvento dello Stato di diritto). Quella traduzione intendeva segnalare, alla vigilia dell'instaurazione della repubblica, la necessità di sottrarre il potere giudiziario al controllo dell'esecutivo: Piero Calamandrei avrebbe ravvisato nella "netta separazione tra giustizia e politica" la chiave di volta della legalità, denunciando come la Costituzione repubblicana si era mossa proprio in tale direzione senza trovare adeguato riscontro nella prassi giudiziaria. Non è un caso poi che, in un contesto molto cambiato, quel saggio sia stato riproposto al pubblico negli anni novanta dall'editore Gangemi, per le cure di Carlo Vallauri. Con la monografia di Floriana Colao, che al problema della giustizia politica aveva già dedicato un lavoro, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento: da "delitto fittizio" a "nemico dello Stato" (Giuffré 1986), disponiamo finalmente di una ricostruzione complessiva della tormentata vicenda dei rapporti tra giustizia e politica in tutto l'arco della storia dell'Italia repubblicana: una ricostruzione che dà ragione della plurivocità degli attori (nella magistratura, nei partiti e nelle istituzioni parlamentari, nella Corte costituzionale); delle proposte di riforma legislativa; delle strategie dei processi politici che hanno segnato, in particolare dalla metà degli anni settanta, questa storia; delle ideologie e teorie che hanno accompagnato tutto quel travaglio con controverse interpretazioni. L'autrice passa in rassegna sia la stagione della Costituente (che vede già l'affermarsi di un orientamento all'attenuazione del modello inquisitorio, non al suo superamento) sia la lunga stagione di dispute dottrinarie e di inconcludenti trattative sulla riforma normativa (ben presto l'incapacità di riformare il processo penale sarebbe apparsa a molti come un indicatore della crisi della nostra democrazia), che dopo l'incerto riordino della Novella del 1955 approdava solo nel 1988 al nuovo Codice di procedura penale (l'unica codificazione di cui si sia mostrata capace la Repubblica nell'età della decodificazione) sia infine la stagione dei grandi processi (e dei processi abortiti), quando la magistratura si fece carico del compito di "spiegare il senso della violenza politica nella storia nazionale attraverso la verità processuale". Un segmento di storia drammatico, quest'ultimo, gravato dal peso di tante vittime: i processi per la strage di piazza Fontana, il processo alle Brigate rosse, aperto in assise a Torino il 7 maggio 1976 (accompagnato dai dibattiti sull'avvocatura d'ufficio e il processo senza difensori come scontro di parti contrapposte), il processo-inchiesta 7 aprile, i processi Sofri, i maxiprocessi degli anni ottanta e novanta, alla camorra e alla mafia (con i dibattiti sul pentitismo), il processo Andreotti furono tutti eventi giudiziari di grande rilevanza mediatica, che videro la dottrina discettare della fattispecie dell'"insurrezione armata contro i poteri dello stato" e l'opinione pubblica denunciare indagini e capi d'imputazione inquinati da un "teorema". Su tutta l'aggrovigliata vicenda si staglia la mai sopita disputa intorno ai massimi sistemi (inquisitorio verso accusatorio), vertente sulla vexata quaestio se il processo penale debba essere visto come un'attività anche di ricerca sul crimine oppure solo come procedura giudiziale su un materiale d'accusa formato altrove. Scaturito dal lungo travaglio italico è stato piuttosto un ibrido, con esiti deludenti. Il nuovo processo alla Perry Mason cambierà l'Italia titolava il "Corriere della Sera" un articolo di Beria D'Argentine del 3 marzo 1988. Non è stata una profezia azzeccata. Lo scivolamento dall'accusatorio all'assolutorio, denunciato da Marcello Maddalena, fondatore del Movimento per la revisione del nuovo codice di procedura penale, in un caustico e lungimirante contributo del 1989, La cultura del ficodindia e il nuovo processo, resta a tutt'oggi un tarlo che rode la fiducia del cittadino nella giustizia: e alimenta le facili retoriche del populismo. Pier Paolo Portinaro
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