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Anno edizione: 2005
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Descrive un mondo puro, nonostante tutto. Leggetelo
"Gladiatori" non è solo uno splendido libro sul mondo della boxe ma una lirica e sofferta dichiarazione d'amore per tutta una serie di figure mitiche che ruotano intorno al quadrato-gabbia del ring. uomini rinchiusi in palestre, autodisciplinati da una morale e da una dignità che sembrano appartenere proprio agli antichi gladiatori, guerrieri del nulla, in lotta con se stessi più che contro l'avversario di turno. è un libro fatto di sudore, di rimpianti, di sogni, di sguardi fissi, vuoti, orgogliosi e fragili catturati dalle splendide foto di Pompili. facce senza tempo proprio perchè mai appartenute ad uno specifico "tempo" se non a quello della lotta della sofferenza della rinuncia.
Antonio Franchini, The Greatest. Anche questo, come i suoi precedenti, non è un libro, non è un racconto, non è un saggio, non è un reportage e non è nemmeno Superman. E' un genere letterario per sé: un libro-di-Antonio-Franchini. Lingua scintillante, affascinante il tema, belle e indispensabili le foto fuori testo di Piero Pompili. Antonio Franchini, welterweight, still undefeated.
Recensioni
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"Da anni dura per me quest'ossessione" osserva Franchini dagli spalti milanesi del Mazda Palace, durante un torneo internazionale di kickboxing ; "Sò quindici anni che fotografo pugili", gli risponde a distanza di molte pagine un professionista del teleobiettivo come Piero Pompili. Una siffatta coincidenza di interessi, se non di monomanie a sfondo ansioso, la dice lunga sulla genesi del volume. In prima battuta Gladiatori è l'incontro di due rovelli dominanti: quello di un editor scrittore tra i più robusti della generazione di mezzo, disposto a indagare se stesso e gli altri attraverso la specola dell'oltranza marziale; e quello di un Caronte romanesco che lo traghetta entusiasta e ciarliero nei luoghi del combattimento, dagli scantinati asfittici di Casalbruciato alle palestre abusive e scrostate di San Lorenzo, Corvale, Civitavecchia.
Il discorso si snoda in senso latamente trattatistico: e non è una novità. Da tempo l'autore si cimenta in spirito sperimentale con la prosa non romanzesca. Fin dal formidabile pamphlet autobiografico Quando vi ucciderete maestro? (Marsilio, 1996), di cui quest'opera è ideale continuazione. Con un di più di spurio, senonché, di composito, con una mestizia meditabonda che non era del precedente.
In assenza di capitoli o partizioni, il respiro della lettura si fa affannoso. L'eterogeneità dei materiali sorprende, stordisce, e nondimeno seducono le suture a secco, prive di legamenti che palesino un qualche artificio. Alle interviste plurime, scorciatissime e quasi indistinte in cui prendono parola tragici e stravolti protagonisti del ring, si alternano riflessioni sulla classicità e i ludi circensi. Lo ieri lontano, greco e tardoimperiale, riverbera sull'oggi eroicamente involgarito. Spicca però fino a grandeggiare solitaria una voce en moraliste , che nei modi dell'apostrofe, della gnomica sentenziosa e delle interpolazioni intimiste (i corsivi, le chiose laterali), invita a riflettere sull'eccezionalità figurale del combattente, del lottatore senza tempo. Un tipo d'uomo predisposto a subire almeno in misura uguale a quanto infligge; che conosce il dolore sino a celebrarlo ontologicamente: "Il male - spiega Giancarlo Garbelli, in arte Garbelìn - per me a un certo punto è diventato la colpa. Se senti il male è perché sei in colpa". Di simili uomini convenuti su un quadrato, sul tatami, rinchiusi in una gabbia metallica per atterrarsi senza scampo, un altoparlante declinerà nome, altezza, peso, numero di incontri vinti, persi, pareggiati. Un mito di trascendenza, per Franchini, "un'anticipazione, insomma, di quanto probabilmente non avverrà il giorno del giudizio". Giacché - e qui il tono da biblico si fa omerico - "la consolatoria evidenza dei numeri non ci è destinata, noi sappiamo raramente se abbiamo vinto o perso, se non nella contabilità ingannevole della coscienza", ovvero nell'interiorità, vera tabe antiepica a cui aspira la modernità nel suo significato profondo.
Invero parlandoci di box acrobatica o tradizionale, di freefighting , valetudo brasiliano, wrestling , Franchini ambisce a intramare una grande metafora. Da anni la cerca, la insegue nei riflessi delle scrittura giornalistica e del lavoro editoriale ( L'abusivo , Cronaca della fine ); nel colore sanguigno del scontro e dell'oltranzismo fisico. In Gladiatori questo sforzo approda a immagini di decadenza. Si risolve nei crolli della materia pulsante, nell'inflaccidire progressivo della carne. Certo balugina tra le righe un elemento di riscatto a tanto confliggere di corpi: è la grazia tecnicamente esercitata capace di redimere un massacro, o la suggestione che promana da profili michelangioleschi e caravaggeschi che si infliggono sevizie; è il peso massimo che rovina a tappeto replicando il titano cacciato dal cielo. È insomma l'estetismo del basso e del primordiale, di ciò che è sacro e tellurico, a nutrire l'estro franchiniano. Fino a nostalgie di purezza trascendente e di volontà incontaminata, proprie del pugile uso a qualunque privazione, cibo, godimento, riposo, in vista di un combattimento che lo testimoni non come individuo, ma come uomo, "in tutta la sua vastità".
Estetismo dunque, e rischioso; canto marziale e insieme popolano, romanesco, capitolino involgarito, che tuttavia a dispetto di talune occorrenze esplicite direi più sabiano che pasoliniano. In gioco c'è un criterio religioso di umilità. Un tenersi ancorato all'humus, alla terra che ha dato forma e che attende le membra atletiche di uomini in lotta. Un estetismo delle viscere, degli istinti, capace di "farsi / più puro dove più turpe è la via". Ma senza confusioni o simbiosi velleitarie. La chiusa del volume ci restituisce il narratore sulla tangenziale di Milano, stretto nella sua automobilina, aggressivo e tuttavia conscio di una mediocrità borghese a cui non è dato se non il vagheggiamento intellettuale dell'altro, dell'inassimilabile. "Alla fine, arrivare s'arriva comunque, si parcheggia, si scende, ci si chiude una porta alle spalle. Anche se non si sente suonare nessun gong, la ripresa è finita": una chiusa in calando, diminutiva, che sembra bilanciare, e non per autonegazione, il sublime agonistico e cupamente intonato che il libro dispensa con maestria davvero rara.
Bruno Pischedda
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