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La scelta del "romanzo" permette all'autore alcune riflessioni e considerazioni molto profonde (le vittime sono anche suoi parenti) che probabilmente in un saggio non riescono a trovare spazio. Nella parte centrale il giochino di invocare sempre Goetz e/o Meyer per sottolineare il fatto che lui di informazioni approfondite sui due non ne ha trovate e quindi formula delle ipotesi tende un po' a stancare...ma l'autore è bravissimo nel gestire questo passaggio nonostante tutto. Voglio dire se non sei uno scrittore magistrale in un passaggio di questo tipo ti schianti. Il finale l'ho trovato ricchissimo, in particolare le riflessioni su memoria e anime, le anime che ricordano, come scrive, non possono perdersi. Da leggere, indubbiamente.
Recensioni
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Il romanzo di David Albahari, ricco per i piani di lettura (elementi realistici, storici, biografici e autobiografici), si sviluppa intorno all'io narrante, un solitario professore di lettere, ebreo serbo di Belgrado. Ripercorrendo la vita della propria famiglia con tanti tasselli vuoti, il protagonista incomincia a ricostruire un passato che, proprio per la sua veridicità, appare quasi spettrale. È costruito e ri-costruito sulla memoria del tutto personale (storie di famiglia fatte di nomi, fotografie, lettere, racconti a mezze parole dei parenti superstiti), ma anche su molti dati e sul materiale di archivio. Così, al tema principale lo sterminio degli ebrei belgradesi nel periodo 1941-43, avvenuto realmente e storicamente documentato si fonde il mondo romanzesco e, in tutta la sua crudeltà, la realtà diviene fiction: è minuziosamente descritta la deportazione in massa di 9.500 persone; la loro vita, negli edifici della fiera di Belgrado, fatta di false illusioni e di molta sofferenza, organizzata sui modelli dei campi tedeschi, dai quali venivano quotidianamente trasportate fino a Jajinci, una località distante una quindicina di chilometri; la loro uccisione durante il tragitto, negli enormi camion trasformati in camere a gas.
Con questa storia vera si intreccia una storia parallela, quella dei due soldati tedeschi, Goetz e Meyer, addetti al trasporto e uniti dallo stesso ruolo di assassini. Sono inseparabili, due facce e due corpi, e anche se solo un piccolo anello del grande meccanismo, sono tuttavia lo stesso frutto delle forze del male, perché trasformano la morte in un rituale monotono che fa parte della loro esistenza quotidiana. La banalità della loro vita non li discolpa, al contrario: l'io narrante vive in un'ossessione al confine con la pazzia la ricerca della ragione, che fa sì che la morte si trasformi in una bestiale banalità e normalità. Lo scopo principale della sua esistenza diventa quello di impedire che vengano dimenticate le vittime, molte delle quali rimaste senza nome, ridotte a semplici caselle vuote nella nostra memoria.
Il messaggio di Albahari è esplicito: solo la memoria permette di scoprire i volti veri di tutti i Goetz e i Meyer. Fino a quando rimarranno tali intercambiabili (Goetz o Meyer, Meyer o Goetz, sono nominati sempre così nel testo), nascosti e senza un volto che li distingua l'uno dall'altro potranno tornare e rinnovare l'assurdità della storia e l'assurdità della vita stessa. Perché questo non avvenga, il vecchio, stanco professore coinvolge anche gli studenti del suo liceo belgradese e, trasmettendo loro la memoria della propria famiglia, assegnando loro i ruoli di persone uccise, in un gioco non del tutto innocente, dimostra che la vita non è inutile. Egli lotta per lei, nonostante la disperazione, la solitudine e la debolezza. Le sue tre vite parallele, una reale piena di elementi di vita quotidiana, una nella quale avviene l'identificazione con i parenti uccisi e la terza, fatta di confronti e di dialoghi con Goetz e Meyer, con il mostro creato dall'uomo a due teste, fa sì che la sua esistenza scivoli verso l'irreale per ritornare nella realtà e acquisire senso. Ljiljana Banjanin
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