Nel panorama storiografico italiano la ricezione di Burke è coincisa con il ridimensionamento di "un gigante del Settecento inglese". Se n'è fatto "un'icona ultraconservatrice e reazionaria", finendo per rimuovere la complessità di un autore che tanto avrebbe potuto dare alla fondazione di un liberalismo di marca empiristica e pragmatica. Lo stesso Burke voleva essere ricordato per gli studi e l'impegno politico profusi intorno all'India, tra le più grandi e preziose colonie dell'impero britannico. Grazie al libro di Niedda si scopre un intellettuale che intese il suo servizio nelle istituzioni come coniugazione virtuosa fra interessi della madrepatria e rispetto di alcuni principi di civiltà, tra cui l'inclusività e il conseguente governo sapiente delle diversità. Burke aveva divorato l'Esprit des Lois di Montesquieu nella traduzione inglese del 1750. Si convinse perciò dell'esistenza di un genio per ogni popolo. Gli inglesi avrebbero dovuto essere all'altezza degli antichi romani, esempio di equilibrio e moderazione. E sinceramente moderato è il suo pensiero in tema di politica come di economia. Intermedia la sua posizione tra i fautori di un liberismo senza regole e i sostenitori di un protezionismo misoneista. Burke sostenne i benefici dell'economia del lusso e quindi del liberoscambismo. Fustigò con veemenza la corruzione diffusa nell'amministrazione coloniale britannica di fine Settecento, sottolineando la necessità di una politica più conciliante con le popolazioni native e nella rigenerazione di una classe dirigente mossa da spirito di servizio pubblico, disinteresse per il tornaconto privato e l'arricchimento personale. Critico dello spirito aggressivo e violento del primo capitalismo globalizzato moderno, Burke considerò la prudenza e la mediazione quali virtù supreme della politica. Danilo Breschi
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