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L’uomo «è per natura artificiale». Un’idea che risuonerà a lungo nell’antropologia filosofica del Novecento.
Scritto sotto l’impulso «delle profonde tensioni allora esistenti fra scienze della natura e filosofia», I gradi dell’organico e l’uomo (1928) si avventura in una grandiosa impresa di pensiero: «afferrare da un unico punto di vista la graduazione del mondo organico», ossia identificare la «logica della forma vivente» – vegetale, animale e umana – rispetto all’inanimato. La formulazione-chiave a cui perviene Helmuth Plessner è la sostanziale eccentricità dell’uomo all’interno del vivente. Unico tra gli esseri a distanziarsi dall’ambiente e dagli istinti, per compensare questo squilibrio costitutivo e garantirsi una specifica forma di esistenza deve ricorrere all’«aiuto delle cose extranaturali, che scaturiscono dal suo creare». Insomma, l’uomo «è per natura artificiale». Un’idea che risuonerà a lungo nell’antropologia filosofica del Novecento.
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